CESARE ANGELINI CARLO DOSSI
In C. Angelini,Cronachette di letteratura contemporanea,Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 211-229.
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Carlo Dossi a 18 anni Dipinto di Tranquillo Cremona, 1867Museo Archeologico Villa Pisani Dossi, Corbetta |
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Al Dossi mi sono accostato negli anni del primo dopoguerra, tra il 1919 e il ’20, attraverso l’amicizia di Carlo Linati che dalla prosa studiata e nervosa del Dossi ha molto derivato. E, se in quegli anni sulla rivista milanese del Convegno ha scritto pagine degne di lui, in un libretto che ha per titolo Sulle orme di Renzo e per sottotitolo «pagine di fedeltà lombarda», rintracciando le sue parentele spirituali tra gli scrittori della sua terra, si incontrava appunto col Dossi, col Lucini, su fino al Correnti, al Cattaneo, al Rovani, con la segreta voglia di farla franca e ricongiungersi al Manzoni. Aspirazione che c’è sempre nel cuore di ogni lombardo che tiene responsabilmente la penna in mano.
A parte la matta persuasione di credersi i nipoti del Manzoni e di quella sua irrepetibile misura, negli anni a cavallo tra i due secoli, sui nomi estrosi del Dossi, del Lucini, di Gustavo Botta, di Ugo Bernasconi e del Linati, s’era creato una linea di letteratura lombarda non conformista che non si sbaglia a chiamarla l’ultima frangia della seconda scapigliatura milanese. Linea la cui autenticità eversiva fu riconosciuta, tra gli altri, dal Flora nella Storia della letteratura italiana; e da Giovanni Boine che, accomunando quei compagni di strada nella identica appartenenza regionale, la chiamò lombarderia; parola di suono dossiano, quasi a dire prima scrittori del contado lombardo poi della provincia italiana, e tuttavia italianissimi. (Lombarderia; e vorrei metterci dentro anche quella solidale fraternità di vita e di fortuna che, ancora ai primi del Novecento, caratterizzava i nostri scrittori e artisti, e dal loro sodalizio veniva sempre qualche utile alla città).
Ma è giusto dare qualche notizia sui casi esteriori del Dossi, che aiutano a intendere meglio lo scrittore non troppo divulgato, anche se sopra di lui c’è un medaglione di Benedetto Croce, un articolo intelligente del Borgese, gli studi del Nardi, i vagabondaggi del Linati, un saggio di Giulio Cattaneo e la lunga fatica di Dante Isella che, visceralmente sensibile ai valori stilistici e alle eredità lombarde, di recente lo ha aggiornato e fatto, per così dire, territorio suo; riconoscendogli una autentica funzione di caposcuola per l’efficacia dello stile con cui ha operato sul suo tempo e opera ancora sul nostro e su alcuni dei migliori; per esempio, su Carlo Emilio Gadda.
Dunque il Dossi, anzi Carlo Alberto Pisani Dossi, nacque settimino, o come scrive lui, settimestre, a Zenevredo sulla collina dell’Oltrepò pavese, il 27 marzo 1849, il giorno della battaglia di Novara. L’atto di battesimo che siamo andati a vedere, dice che nacque da famiglia «benestante» per ampia proprietà terriera. Si dice che i fratelli Pisani Dossi, ogni anno, dopo il raccolto e la vendemmia, si dividevano i marenghi con lo staio, come si fa con la melica e i fagioli. Erano anche patrizi; nobiltà provinciale di cui il giovane Carlo s’era fatto un’idea esagerata e boriosa, se nei suoi scritti è sempre pronto a esporne i titoli e gli stemmi. Un resto di spagnolismo che a Zenevredo, già guarnigione spagnola, cessato di essere come dominio politico, continuò come modo di vivere.
Dodicenne, fu portato a Milano, dove i Dossi avevano una casa in via Montenapoleone, per frequentarvi le scuole; ma nelle vacanze di Natale, di Pasqua e nelle estive, tornava ai silenzi della casa sulla collina pavese, e, con precoce ingegno, componeva poemetti, commediole e drammi; tra i quali ebbe qualche risonanza un Ludovico Ariosto, recitato in Sannazzaro dei Burgundi dalla scuola di Claudia Antona-Traversi, con figurine disegnate da Tranquillo Cremona, il pittore pavese legato al Dossi per tutta la vita.
A 18 anni, è a Milano, tra i fondatori della Palestra letteraria artistica scientifica che raccoglieva gli scapigliati milanesi: Cletto Arrighi, Luigi Perelli, Primo Levi, e il Tarchetti e il Praga. Intanto si laureava in Legge all’Università di Pavia dove, oltre il Camerana («Quando eravam studenti di Pavia...») conobbe il Correnti, il Cattaneo e il Rovani nei quali riconoscerà i suoi padri spirituali. Frequentava anche i pittori: il Ranzoni, il Conconi, il Grandi e il Cremona, che più d’una volta aiutò del suo.
Nel ’70 inizia la carriera politica, trasferendosi a Roma, e, entrato nell’orbita di Crispi, ne diventa il segretario particolare, condividendone le idee nella spinosa questione africana. Passato alla carriera consolare, nel ’92 fu console generale a Bogotà in Columbia, e tre anni dopo, con lo stesso incarico, ad Atene dove un giorno lo incontrò il pittore-scrittore Ugo Bernasconi, che mi contava d’averlo visto scendere dall’acropoli con le tasche piene di frammenti e di cocci; testimonianza d’un’antica passione archeologica.
A 43 anni sposò Carlotta Borsani, essendo testimonio del rito religioso il ministro Crispi, e celebrante, il card. Hohenlohe. Rinunciato alla carriera diplomatica, si ritirò a vivere nella campagna di Corbetta presso Magenta, dove gli nacquero tre figli e più di tre libri. Il 16 novembre del 1910 morì nella villa del Dosso fatta costruire su disegno del Conconi e dedicata all’amicizia, senza badare a spese.
Il pavese che s’era fatto milanese, moriva comasco, ma sempre nella fedeltà lombarda.
Il Lucini, suo biografo appassionato, dice che il fatto d’esser nato settimino, senza levatrice, da una madre in fuga dentro il rombo delle cannonate di Novara, influì sulla sua vita che fu tutta disturbata da una pericolosa nevrosi.
Si diceva dell’ingegno precoce. Aggiungiamo che il Dossi si consumò in questa precocità. Scrisse il Croce che il Dossi ebbe in dono da natura una bottiglina d’olio finissimo, e presto l’ebbe tutta versata nei due primi libretti: L’altrieri e la Vita di Alberto Pisani, piccoli capolavori scritti tra i diciotto e i vent’anni, come se a quell’età gli fosse già tutto chiaro, e la coscienza di sé e i problemi dell’arte. Un frutto maturo, che il Linati spiega col dono d’una iniziale grazia poetica. Quasi il caso di Rimbaud che, scritte a diciannove anni le Illuminazioni e la Saison en enfer, chiude con la poesia e scappa in Africa a fare il mercante.
Il Dossi non scappò; rimase tra noi a scrivere altri libri, personalissimi, originalissimi, di bizzarrie, di utopie, di paradossi, che dicono tante cose di lui, ma poco aggiungono alla immagine vera dell’artista, affidata ai due primi; perché, dice il Croce, questi sono opere di cuore, gli altri, di testa. Volendo dire, spiega Isella, che nel primo Dossi lo stilista ha lavorato su una materia più sensibile, sui dati di esperienza più intimamente sua.
Nell’Altrieri, racconta la sua infanzia e fanciullezza, vissuta nella casa sulla collina pavese, tra la grande cucina e la cappa del vasto camino che a qualcuno ha fatto pensare — per echi e suggestioni — alla cucina di Fratta. Dossi ricerca i primi ricordi sempre vivi nell’affettuosa memoria; le prime cose viste, le prime voci udite, l’infantile amore per la piccola Lisa compagna di giochi; la prima scuola e i compagni e i maestri. Scrive di bambini ma non per bambini.
Maravigliosa la sua capacità di interpretarne descrittivamente la vita. Racconta, descrive, colorisce i paesaggi per farvi scendere i personaggi, così vicini alla sua fanciullezza finita da poco, appunto da l’altro ieri.
Passano figurine di bimbe aeree, diafane, evanescenti, e già sacre alla morte. Lisa, per esempio: «una ragazzina di sett’anni, una di quelle fragili creature da scatolino e bambagia, in cui l’anima è tutto. Gli occhi di lei, lucentissimi, lasciavan, per così dire, lo sguardo dove fissavansi ... Cominciò con una voce sottile, accarezzante, a digabbiare colombini pensieri, a confidarmi i suoi segretucci. Mi contò su, fra l’altro, ch’ella era la fortunata mammina di una pupattola alta sì e sì, imbaulata pur anco... Lisa azzittì, poi capricciò. Sopra di noi gocciarono silenziosi momenti».
Passano figurine di bimbi, maschietti di scuola, delle prime classi. Entriamo in una. «Nel toccarne la soglia, erami sembrato uscirne una chiuccurlaia, un pestìo. E, appancate, quante differenti testine... Si dipancò un tombolotto, tondo, grasso, e bianco come un pan di butirro».
Al Croce, che dedicò al Dossi uno dei suoi più generosi medaglioni, piacque molto la scena intitolata Le caramelle, che muove due bimbetti mocciosi e golosi verso la bottega del caffettiere «con quell’aria baciocca che i maschi hanno sugli otto», e la riferì intera nel suo saggio, indugiando nell’assaporare il modo come il Dossi sa cogliere l’anima del fanciullo messa tutta in un gesto, in un movimento.
Il Dossi non vede se stesso con l’occhio falsificatore e convenzionale dei grandi, come accade a chi rifà il corso della sua vita da adulto; ma ritorna su se stesso con la freschezza e gli intenerimenti e i trasalimenti di quell’età. («I miei dolci ricordi! Io li evoco, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa coi suoi nipotini».) E li cava fuori dalla memoria gioiendo e soffrendo; sì che l’Altrieri, più che un libro, è una creatura vivente; è lui, il Dossi: l’adolescente pallido e sensitivo e un poco femmineo che, nel ritratto alquanto vaporoso del Cremona, ora ci guarda dalla prima pagina del volume.
Quel che s’è detto dell’Altrieri, s’intenda anche della Vita di Alberto Pisani, scritta a vent’anni: due libri concreati e concresciuti. Sapete com’è. Carlo Alberto Pisani Dossi sceglie per sé il primo nome e il secondo cognome e, come Carlo Dossi, scrive la Vita di Alberto Pisani; un’autobiografia, narrata in forma di romanzo e rotta in tanti bozzetti, scenette, raccontini confacenti al suo temperamento di scrittore frammentario ma stretto nella coerenza stilistica che non consente la citazione del solito frammento goloso. Continuano i ricordi della sua infanzia profumata e viziata, vissuta nella casa sulla collina pavese; la stessa freschezza e tenerezza e, in più, l’esperienza delle mezzetinte adatta alla trasparente materia delle evocazioni. La Vita è l’altro piccolo capolavoro, anche se un po’ guastato dal finale wertheriano dove la poesia cede alla maniera.
Certi stati d’animo, si può dire che li ha inventati lui, il Dossi, per la prima volta, e ha saputo farli valere artisticamente con intensità e evidenza; come nel bozzetto De consolatione philosophiae che il Croce riferì pure intero nel saggio citato. Ed è interessante vedere il critico severo abbondare nelle citazioni e commentarle con parole generose. È perfino disposto a passar sopra certe leziosaggini e graziette (ce ne sono) che non ha mai perdonato, poniamo, al Pascoli. Si spiega: nel Pascoli quelle graziette sono dell’adulto che fanciulleggia e dunque falsifica; nel Dossi sono del fanciullo che sente da fanciullo, pensa da fanciullo e parla da fanciullo.
Anche il Pancrazi, critico non di manica larga, nella sua antologia dell’Ottocento riporta intero, da L’altrieri, il lungo racconto di Lisa, come uno dei più moderni ritratti del secolo.
Ora, passando come si dice, dal contenuto alla forma, dall’anima all’arte, ci si domanda come comunica il Dossi questo suo aristocratico piccolo mondo di sensazioni umbratili e di sentimenti permalosi; in che lingua lo esprime, in che stile.
A rispondere, par che ci aiuti lo stesso Dossi: il quale scrisse in una delle Note azzurre: «Il nome del villaggio dove io nacqui sulla collina pavese, presagì il mio linguaggio, il mio stile: Zenevredo o Ginepreto, ispido e odoroso»¹. E qualche tempo fa, trovandomi impegnato nella lettura del poeta, volli salire la collina, per respirare l’aria di quel paese e la vaghezza di coglier da quelle siepi qualche rametto di ginepro. Ma, ahimè! Di ginepri, neanche più la radice; nemmeno nell’orto del parroco, custode delle cose presenti e passate.
Ma l’odore ispido del ginepro ben saliva dal volume che m’ero portato sotto l’ascella e che aprivo qua e là per recuperare dalle pagine la verità del paesaggio e sentirne, lì sul luogo, l’odore espressivo, anzi, il sapore espressivo. I segni marginali delle letture precedenti, ne agevolavano il controllo.
Indubbiamente il Dossi si presenta con un linguaggio spinoso, irto e, a tutta prima, irritante; parole dialettali coniate da lui; una sintassi contorta, latineggiante; una ortografia e una punteggiatura contro l’uso corrente, anticipando l’interrogativo o l’esclamativo al principio della frase. Il lettore può credere, lì per lì, trattarsi d’un bizzarro esercizio di vocabolario, o d’un lussuoso capriccio di cervello stravagante. C’è anche questo; ma c’è soprattutto un urgente bisogno di ampliare il campo delle possibilità espressive, di calare il suo linguaggio interno in una scrittura sua, personale. Al Dossi non bastava la lingua comune, tanto meno la lingua del suo tempo che, dopo la stupenda medietà del Manzoni, aveva perso ogni nerbo, ogni funzione pungente; la scrittura era caduta in una squallida «incolorità» di lingua.
Il Dossi riscopre l’alta lezione manzoniana, magari attraverso il Porta, e recupera, a suo modo, quei valori, diremo, dialettali e la loro forza nativa. Sua persuasione era quella di acquistare il dialetto all’arte; che non era un involgarirla ma un arricchirla. Il dottissimo giovane che sapeva sorridere in greco e amare in latino (tale era la sua conoscenza delle lingue classiche e l’esperienza dei loro autori) sapeva qual fresco serbatoio è il dialetto per una lingua: un continuo inventare. Diceva: «Inventare parole nuove è lecito a tutti per la ragione che è lecito a tutti inventare nuovi pensieri. Ora, a chi ben guarda, le parole non sono che altrettanti pensieri. E poi, perché accordare questa prerogativa al becero fiorentino e negarla al gentiluomo lombardo?». Evidentemente questo sedicente manzoniano non credeva molto alla «risciacquatura» dei panni in Arno.
Insomma, era un problema di tecnica per arrivare allo stile. Prova d’una sensibilità linguistica meravigliosa, se si pensa che queste inquiete ricerche erano fatte da un ragazzo diciottenne. Ed eccolo a raccogliere, o inventare, dialettismi non so se più variopinti o efficaci. E scrive del cane che sgagna l’osso, del carrettiere che s’giacca la frusta, degli alberi che in gennaio barbellano dal freddo, della massaia che sgura le fondine (più bello se dice del vento che sgura le stelle), del cavallante che staravacca il carro; o del bacio s’ciassero (che è in Porta nel frammento del 5° dell’Inferno); di uno dice che è un pampalugo, di un altro che è una sganzèrla; con l’intento di ricondurre la lingua vicino alle sorgenti del suo dialetto e la sua forza immediata.
Recupera parole inconsuete, arcaiche, ricaricandole di nuovo mordente; raddoppia il significato di quelle germinate da etimologie inattese; deforma quelle in atto e in uso, stimolando quell’altre che una lingua tiene sempre in potenza. La lingua inesplosa, che rinnova il sapore dell’idea. Valga il vero: «Ci avviottolammo tra due poggetti che erbeggiavano». O quest’altra: «Entrati nella scuola, gli scolari si appancarono. Finita la lezione, si dipancarono e usciolarono fuori».
Cose che ai coraggiosi e agli innovatori (diciamo un Imbriani, un Faldella) davano qualche ebbrezza; o facevano dire al Lucini che «il Dossi era di quegli artisti nervosi che incutono alla lingua nuovi moti o guizzi e ne esprimono nuovi gridi e bagliori».
Ma facevano paura ai timidi e ai pigri che naturalmente protestavano contro il «corruttore della lingua», nella quale pareva mescolare i detriti e i rottami del Naviglio.
Il Dossi rispondeva che egli era nato per essere un corruttore e un violentatore della lingua; e proprio per questo gli italiani gli dovevano riconoscenza, perché in questo modo egli preparava il nuovo risorgimento.
Luigi Capuana, che più tardi ne diventerà un ammiratore, confessa di non capire se il Dossi si burlasse del lettore o — che era peggio — facesse sul serio. Il Dossi faceva sul serio. In lui, scrittore d’eccezione e autobiografico fino all’egoismo, era un bisogno di ampliare il campo delle esperienze espressive per poter comunicare onninamente le sue emozioni, il suo mondo inedito d’affetti e sentimenti pressoché inesprimibili.
A questo punto, davanti al contesto linguistico certamente stravagante, a una dicitura che un poco sconcerta, anche i suoi ammiratori si domandano: — Insomma, cosa vuole questo Dossi? Vuol creare una nuova lingua d’Italia? Ha già risposto con simpatia G. A. Borgese. Il Dossi voleva creare una nuova lingua; non per l’Italia, che l’aveva già fatto, da poco e così bene, il Manzoni; ma la lingua di Dossi, per l’espressione più immediata e spontanea del suo spirito solitario e dei suoi sentimenti personali. Quel linguaggio interno di cui parla il Croce: per mezzo del quale l’autore parla a se stesso, per se stesso. Innamorato dei suoi ricordi, come gli innamorati usa parole piene di reconditi significati che gli estranei non devono bene intendere.
Spiega la tiratura dei suoi libri, limitata a poche copie — cento, centoventicinque — e fuori commercio, da diventare subito rarità bibliografica.
L’ampiezza espressiva acquistata con la «violenza alla parola», lo illudeva d’aver scoperto parentele tra la sua scrittura e le arti figurative. Scrive a proposito di un pittore: «Chi conosce il segreto dei dipinti romanzi di Hogart, comprenderà meglio le mie scritte pitture». E significativa è la certezza espressa in una dedica al Cremona: «A Tranquillo Cremona, dal cui pennello ho imparato a scrivere». Visti bene (e, in arte, più legge chi più vede) i racconti e i raccontini del Dossi, si ricordano poi tutti insieme come un onduleggiare di teste e di gonne, un alitare di ventagli e parasoli, in atmosfere di colori accordati che danno il tono e il suono di un quadro.
Gli stessi rapporti il Dossi cerca di scoprirli tra la scrittura e la musica, tentando di far sentire non le parole, ma suoni e le ombre dei suoni. Insomma, una fusione tra suoni, colori e odori. Scriveva: «Verrà un tempo in cui si stabiliranno tavole di equivalenza tra essi». Forse le aveva già stabilite il Rovani, o lo credeva, scrivendo il libro dedicato alla fusione delle tre arti: poesia, pittura e musica. Come dire: dipingere le cose coi suoni e i colori delle parole.
Erano le idee e le tecniche comuni agli scapigliati, al Praga, al Camerana, al Boito, al Tarchetti, il quale (su l’esempio di Rimbaud) aveva scritto un sonetto sul colore delle vocali.
Ma la fusione, e l’ha detto bene Titta-Rosa in un suo saggio sulla Scapigliatura, più che delle arti, era degli artisti, era nella suggestione che nasceva dal loro vivere insieme — poeti, musicisti, pittori — e dai loro discorsi aperti a quelle conoscenze e esperienze. Era in questa coincidenza, più occasionale che estetica, che fondavano il principio dell’affinità delle arti; restava naturalmente un vagheggiamento, un’idea da contemplare più che attuabile.
Scapigliatura... Più volte, parlando del Dossi, l’abbiamo nominata, come se ci muovessimo dentro. E infatti ci muovevamo dentro. Era parola adottata a indicare quel movimento letterario-artistico che, nato in Milano verso il 1860, durò fino al ’90. (Se pure si fermò lì, perché scapigliatura o strascico di scapigliatura, è pure il Futurismo scoppiato in Milano ai primi del Novecento: Gli allegri poeti di Milano, chiamò il Borgese Marinetti e la sua confraternita). Capo, ne era considerato il Rovani; e i più notevoli rappresentanti erano il Praga, il Boito, il Camerana, il Tarchetti. Voleva essere contestazione, una rivolta; nella vita, rivolta contro ogni ordine e norma e legge borghese. Amore dell’eversivo, dello stravagante, del disordine, fino alle memorabili sbornie all’osteria, al caffè, al lupanare, al vizio dell’alcool e della droga (Rovani), alla vocazione al suicidio (Camerana, Tarchetti). Diceva il Praga che la scapigliatura era l’ora degli anticristi.
In arte, rivolta contro ogni bellezza ufficiale, contro l’equilibrio, contro la misura, con irriverenze al Manzoni, ingiurie al Verdi. Era il recupero dell’estremismo romantico, nemmeno italiano; rappresentazione della realtà più squallida, fantasie lugubri, incubi, analisi e celebrazione della nevrosi.
E il Dossi, che per ragion geografiche e cronologiche vi si trovava proprio dentro, in che modo e in che misura vi partecipa? Fu amico degli scapigliati; amicissimo del Rovani del quale si diceva il continuatore (e il Rovani, a sua volta, si vantava continuatore del Manzoni). Scrisse sulle loro riviste, specialmente sulla Cronaca grigia, che era l’organo del movimento. Ma, aristocratico e schivo per temperamento, raramente e solo per caso partecipò alla loro vita quotidiana, fatta di pose antiborghesi; e fu pieno di altissima devozione verso il Manzoni. Lo stesso suo destino d’uomo ve lo tenne lontano, perché il meglio di questi anni lo passò come ministro di Crispi a Roma o come diplomatico fuori d’Italia. Sicché in Dossi la scapigliatura si riflette, più che nella vita, nell’arte, per quel suo gusto linguistico stravagante e anticonformista, per il suo programma eversivo in contrasto con la letteratura ufficiale. Se mai il Dossi è proprio quello che diede di più alla scapigliatura quanto a rinnovamento letterario, da poter dire che tra tanti personaggi pittoreschi che essa ha creato, il Dossi è lo scrittore più artista del movimento. E forse ha ragione chi insinua che nella scapigliatura, il Dossi fu più trascinato che partecipe, e i suoi autentici risultati d’arte non li deve a nessuna etichetta, e quel suo linguaggio per il quale è Carlo Dossi, era il linguaggio privato, l’insitum verbum, del suo atelier.
Abbiamo già detto che il Dossi consumò presto la bottiglia d’olio finissimo avuto da natura, versandolo nei primi due libretti che sono sempre il nucleo resistente della sua opera, il momento geniale e perfetto dell’artista.
Ma poi scrisse altri libri, quelli della seconda giovinezza e della maturità.
La colonia felice, apparsa nel ’74, è una poetica fantasia desiderosa di bontà, di redenzione umana; un’utopia che lo imparenta col Campanella della Città del sole. Immagina che un gruppo d’uomini e donne deportati in un’isola deserta, lontana dall’odiata società, per l’istinto della conservazione personale si trovano forzati a dover rifare quelle leggi che avevano rotte e disprezzate. Era la tesi di Platone, il quale diceva che anche una banda di briganti, se vuol fare qualche cosa e vivere, deve reggersi in base a delle norme. Il Carducci la disse la più ampia e vigorosa concezione di romanzo che da noi si sia avuta da molt’anni. Come romanzo (a tesi) non interessa più nessuno, e la lode del Carducci pare sciupata. Come arte, è il culmine della involuzione linguistica e sintattica dello scrittore.
Scrisse Ritratti umani, che è una descrizione satirica della società, vista come un insieme di perfidie e di delitti. Condensa la qualità di osservatore satirico e umoristico spiccatissime in Dossi; ma le figure che vi si muovono, stentano a prendere vita d’arte.
Ai Ritratti seguì la Desinenza in A; altri ritratti, di donne. Una tirata antifemminista, amarissima e feroce; e quasi non si spiega tanta asprezza di giudizi in un delicatoide come lui che, nella vita, non era lontano dal donnear con loro. Disse lui stesso che il libro appartiene al Dossi cattivo.
Coi due piccoli capolavori — L’Altrieri e la Vita di Alberto Pisani — vorremmo allineare le Note azzurre, per tutto quello che di autenticamente bello vi si può isolare; pagine e bozzetti dimenticati di scrivere a quell’età felice.
Dette azzurre dal colore dei cartigli su cui amava scriverle, le Note sono il suo giornale intimo, un capitale per chi è in cerca di temi. Iniziato a 17 anni, fu interrotto a 57, due anni prima di morire. Uscite in parte nel 1910 a cura della vedova, le ha pubblicate intere nel 1967 Dante Isella.
Sono 5794; «una specie di retroscena dei suoi libri, una selva di pensieri, una miniera di spunti, di intuizioni liriche, critiche; una galleria di ritratti di scrittori»; cascami d’una fantasia inesausta; testimonianze di lombardismo, di pavesità nella descrizione della vita ottocentesca dei contadini e fittabili della Bassa, e la loro abbondanza alla buona. Ne trascrivo una, molto pertinente. «Se morirò ricco, lascerò una somma sufficiente perché si fondi in Milano una cattedra di milanese. È un gran peccato che questa lingua così efficace e così pepinière di parole efficaci per la lingua italiana, si vada perdendo».
Le note sono naturalmente senza titoli. Ma a una ha voluto darlo: L’incompleto, un principio d’autoritratto. Dice: «Se dovessi scrivere questo tipo, farei la mia autobiografia. Io non riuscii a condurre nulla a perfetto fine. Poiché la letteratura era la mia vocazione, cominciai arditamente e scrissi e scrissi. Dovevo essere un innovatore: mille progetti, tutti saggi; nessun’opera, e tanto meno una conclusione».
C’è un errore di calcolo nel ritratto che il Dossi tenta di fare di sé; e la sua tristezza è gratuita. Gli innovatori non hanno il dovere di concludere; iniziano, gettano seme, idee, con ardore fecondatore. E il Dossi, stoffa di innovatore, anticipò idee e modi letterari; e molta novità che è nelle lettere del Novecento, si deve a lui. Qualcuno sulla Voce di Prezzolini ebbe il coraggio di dirlo. Ogni tanto c’è chi glielo riconosce, e pare la volta buona del suo ritorno tra noi. Subito dopo gli ricade addosso il silenzio, che par paura a confessare i nostri debiti, a scoprir l’oro che è ancora nascosto nel seno della sua collina pavese. E il Dossi pare sempre un dimenticato.
Saremo sinceri fino in fondo, citando un’atra sua Nota. Dice, parlando di sé e del suo rischio: «Dossi è una rara moneta aurea; ma da gabinetto numismatico, non da commercio». Spiegava in anticipo la sua fortuna e il suo destino; che è d’avere degli intenditori, non dei lettori; non un pubblico, che non ebbe mai, che non volle.
Ma tra gli intenditori, arrivò in tempo ad averne uno d’eccezione: un certo Alessandro Manzoni.
[1970]
1. Sulla casa del Dossi, per iniziativa del prof. Lanfranco Caretti già titolare di Lettere italiane alla Università di Pavia, e pieno di interessi per i vivi e per i morti, fu murata nel 1960 una lapide con epigrafe dettata da Dante Isella. «Qui nacque lo scrittore — Carlo Alberto Pisani Dossi (1849-1910) — cui il nome del villaggio natale — Zenevredo ossia Ginepreto — presagì lo stile — ispido e odoroso».
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Carlo Dossi Archivio Dossi, Corbetta
Fotografia da AA.VV., Il mondo di Cesare Angelini, a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller, con un saggio introduttivo di Angelo Stella, Milano, Banca Popolare di Milano e Libri Scheiwiller, 1997, p. 144. |
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