CESARE ANGELINI STUDI DI DE ROBERTIS
In C. Angelini, Vivere coi poeti,Milano, Fabbri Editori Editori, 1956, pp. 83-87.
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Chi sfoglia questi Studi (centosettanta pagine gremite di finezze, gremite di finezza) ha l’impressione ora di guardare una pittura, ora d’ascoltare una musica, tanta è la suggestione che gli viene da quel fitto contrappuntare e acquarellare, più segreto e più palese ma continuo, continuato. È un po’ della felicità che la poesia regala a chi tenacemente l’ama; e somiglia, in parte, a quella melodia pittrice di cui parla il Foscolo.
Il gran nome ci porta subito su le pagine in cui più batte il cuore del libretto; quelle sul Foscolo superiore o delle Grazie, dove il gusto di De Robertis tocca il felice vertice. Rade volte la sensibilità del critico ci ha aiutato a vedere così dentro la parola poetica.
Ma tutto il libretto è nato «all’insegna del Foscolo»; il cui nome apre le pagine e a suo piacere le guida e le chiude gettando ovunque un senso severo dell’arte. Il libro s’apre così: Diceva il Foscolo... e par che dica sempre. E dice sempre, tanto è invitato in ogni studio, in ogni pagina, a parlare, a indicare, ad avallare col lume del suo gesto e il peso del suo giudizio. In lumine tuo videbimus lumen. È lui che, nella «Premessa», pone la «condizione alla poesia», e par quasi chiamato a far la prefazione al libro; nello studio sul Petrarca porta il giudizio rivelatore della qualità di questa poesia e della sua magia; nella prosa apparente del Decamerone scopre la poesia, il canto, ma poi ne scopre il vizio (nella facondia) dove vi s’annida. E nello studio sul Poliziano e in quello sul Tasso e sul Monti e ovunque, Foscolo è sempre presente e dice lumeggia avvalora. È anche chiamato a commentare curiosamente con le sue osservazioni i subiti trapassi e gli accoppiamenti istantanei, fulminei della grande lirica del Manzoni.
Foscolo è dunque la quota o il poggio aereo (prima che in Ermengarda, l’espressione è proprio delle Grazie) da cui è agevole descrivere i diorami della lirica italiana; ché tali vorrebbero essere questi Studi, partendo dal Cantico di frate sole per giungere, attraverso Guittone Petrarca Boccaccio Poliziano Leonardo Tasso Campanella Gozzi e Alfieri e Monti e Foscolo, alla lirica del Manzoni e a certe solitarie «soste» del Leopardi. Sicché il loro primo significato è proprio questa rivendicazione del Foscolo nella più matura e alta espressione delle sue conquiste critiche. Strano che il nome del Foscolo non ricorra come dovrebbe nei saggi e negli scritti degli studiosi. De Robertis lo dice per il Boccaccio, ma lo intende per tanti altri. E a proposito del Poliziano: Mettiamogli subito a fianco una mezza paginetta del Foscolo, anch’essa dimenticata. Non è senza merito questa devozione al Foscolo, né senza umiltà, che è virtù ed è condizione di schietta coltura. L’humilitas non teme l’humanitas. Ma noi diciamo che è pure un privilegio mettersi alla scuola di tal maestro. Diceva il Foscolo, e diceva cosa novissima, oltre che prestava in anticipo il più forte ausilio al nostro modo di intender la critica... E più avanti lo invoca a sostegno di quella critica che noi sogniamo. Che critica dunque è mai, e che modo è di intender la critica?
Sappiamo che la critica di De Robertis è tutta in una strenua attenzione ai testi, nel «leggere» la poesia sotto il solo segno dello stile, sciogliendo i rapporti tra psicologia e poesia e riscattandoli in fantasia. Dirò che a questa critica De Robertis non ci è arrivato ora: è il gusto, l’insaziabile gusto di rarefazione, suo fino dal lontanissimo 1915. «Leggere», «Saper leggere» son titoli di pagine che si trovano nei numeri della Voce ch’egli dirigeva; e uno che modestamente s’iniziava all’esercizio della critica (ci par di conoscerlo) egli amava presentarlo come un lettore. Naturalmente la sua civiltà letteraria oggi s’è fatta più folta e implacabilmente saputa; e anche le sue formule, più scaltre, più sapienti. Saper leggere — dice oggi — battendo insieme l’accento e sul «leggere» e sul «sapere»: su un fatto di lettura e un modo di lettura. E, sempre sotto la suggestione del Foscolo, De Robertis ci porta alla necessità d’una lettura integrale dell’autore, sentita come condizione alla sua poesia. In altre parole: anche le prove minori (di teoria o d’arte) vanno sentite come condizione prima dei temi maggiori, come le ragioni e le occasioni lontane che, ridotte nel circolo vitale della sua arte, ci permettono di capire il passaggio da un gusto a un gusto più alto e raggiungere quel lento lentissimo formarsi nel suo linguaggio che è poi l’acquisto del suo tono definitivo, della sua realtà poetica. Insomma, conoscere il terreno da cui è germinato il fiore.
Ma è proprio nuovo questo modo di leggere? Nuovissimo, forse, non è. Ma nuovo è questo rapporto di necessità, sentito e risolto anch’esso in un puro fatto di stile. Perché, rifare per questa via la storia di un’opera, d’una poesia (o anche solo d’un verso) è colmarla di risonanza e di significato, onde essa cresce di valore. Su questa esigenza, si svolge la trama di ognuno degli Studi, superando abilmente anche il pericolo della monotonia, attraverso un senso di coltura sempre vincente, di memoria lunga, che dà alle sue parole alcunché di continuamente inventato.
Naturalmente lavorano in De Robertis anche i fecondi acquisti del Croce e l’esempio del Serra e del suo modo di leggere. Il Croce ha pure il merito di aver distinto tra poesia e poesia della poesia, illimpidendone il concetto e portando la critica a bellissimi esiti. E in quanto a Serra, penso che avrebbe goduto la lettura di queste pagine, delle quali qualcuna par suggerita da lui, figura pur tanto diversa, per quel suo elegantissimo bisogno di cominciare e non finire, accennare e non definire; quel raggiungere la radice del suo interesse di lettore intendente — la radice del problema critico — e poi abbandonarlo. Dice dei suoi poeti: Li amo perché son fatto per amarli, qui finisce la critica. E altrove: Io non so giudicarlo; ma sento, com’è, che lo amo. Mentre il proprio di De Robertis è di giudicare, definire, che è un più caparbio capire. Io dico... Io torno a dire... Quante volte ricorre questa orgogliosa affermazione nelle centosettanta pagine degli Studi? Certo più di centosettanta volte, e dice il personalissimo impegno con cui si è dedicato all’esame dei suoi testi, e il lucido rigore che non gli permette mai di levare il capo dalle carte nemmeno al fruscio di una luce che giunge, o per fermare qualche fuggitivo segno del tempo e dell’ora. E pochi, in questa fatica, son più pronti di lui: nel notare i toni varianti d’un componimento, nell’avvertire il senso aprico d’una pennellata, nel trovare il più vivo d’un verso, o un colore romito; nel sentire il sapore d’una parola, che può diventare il suo maraviglioso vizio.
Qualcuno dice che questa è critica stilistica, tutt’intenta com’è ai puri suoni, ai valori sillabici. Dunque critica dell’orecchio, finissimo, e non del cuore... E, se fosse così, privata di ogni istanza umana, sarebbe davvero una cosa un po’ povera. Ma, a guardarla bene, è qualcosa di meglio. Attraverso lo studio dell’espressione e della parola, De Robertis finisce per raggiungere l’umanità del suo poeta, l’anima del suo linguaggio; quasi un riassorbirne — non trascurare — la psicologia.
Ma un punto c’è in cui non possiamo convenire con De Robertis: è dove, parlando del Manzoni e chiestosi se nei Promessi Sposi c’è o non c’è un coro, risponde che, sì, anche nei Promessi Sposi c’è un coro, ma non è affidato a un coro: è invece affidato all’accordo delle voci delle creature che ci vivono. Ora noi non neghiamo che questa «partitura corale» esista, affermiamo anzi che esiste, ed è il più potente personaggio del romanzo. Ma nella «tecnica» del romanzo esiste un coro che è proprio affidato a un coro nel senso del «cantuccio», ed è l’«Addio» di Lucia. Esiste e resiste, anche se indovinato da povera gente, circa trent’anni fa [Cesare Angelini, Il dono del Manzoni, Vallecchi, Firenze, 1924, ndr].
[1946]
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