CESARE ANGELINI CASELLA
In C. Angelini,Il commento dell’esule (noterelle dantesche),Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,1967, pp. 57-80.
Pagine lette alla Biblioteca Classense, in Ravenna, su invito di Manara Valgimigli
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Illustrazione di Gustavo Doré |
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Qualcuno ha detto che il canto di Casella è la più gentile delle scene del Purgatorio; il momento più affettuoso e soave della Cantica.
Una suggestione possibile a chi non sa resistere all’invito di fermarsi alla prima osteria, o, insomma, alle prime apparizioni. E certo doveva pensare alla poeticità del canto, che è nelle situazioni suggestive del paesaggio e dei personaggi: — un primo mattino sulla spiaggia deserta del mare nel trepido colorarsi del cielo, mentre si aspetta il sole; l’apparizione di un angelo che guida «un vasello snelletto e leggero» carico d’anime che giungono al lido, cantando. E, dopo il coro, l’a solo d’un cantore soavissimo: e l’anime tutte attente, contente, in un incanto ridentemente giottesco. Poeticità, dicevo, o poesia di cornice, poesia delle cose; perché la vera poesia è nella realtà effettiva delle parole che, rappresentandosi nel lume delle immagini e nella plastica evidenza dei suoni, anche in questo canto fa di ogni verso un fiore.
Ma sul canto di Casella (o canto secondo) si arriva intrisi di tutto il polline d’oro raccolto nel primo, che ha col secondo una indivisibile unità lirica. Due canti concreati e concresciuti: l’uno viene nell’altro. Continua lo stesso motivo scenico: quel «dolce color d’orïental zaffiro», e tutte quelle stelle, le cose belle che porta il cielo; Venere fa ancora ridere tutto l’oriente; i raggi delle quattro stelle della Croce del Sud fregiano l’onesta faccia di Catone, il custode del luogo; le vaghe stelle dell’Orsa sono appena sparite; n’è rimasta solo la nicchia luminosa. Dante è tutto rapito nella poesia del cielo. Gli stessi motivi poetici o sentimentali continuano e crescono, finché tutti si incentrano nella figura di Casella, concorrendo a far dimenticare l’inferno dal quale i poeti sono appena usciti.
Contrariamente ai suggerimenti dell’Eneide del suo Virgilio e agli insegnamenti della Teologia che mettono sottoterra il luogo delle anime purganti, Dante con una bella indipendenza e più bella invenzione, ha collocato il Purgatorio nel chiaro mondo, su una montagna alta che, sorgendo in un’isola remota del’emisfero australe, dislaga dalle acque dell’oceano, e sulla quale naturalmente passano albe e tramonti, riso di stelle e oblioso canto di luna; da far quasi dire che il Purgatorio non è che una melodiosa vicenda paesistica di albe e di tramonti.
Ma torniamo più vicini al nostro canto, rompendolo in tre incontri: con l’Angelo, con le anime, con Casella.
Nella solitudine stupita del paesaggio marino, i due poeti aspettano il sole; esso mostrerà per dove prendere il monte.
Già era ’l sol all’orizzonte giunto
lo cui meridian cerchio coverchia
Ierusalem...
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Il bellissimo canto si apre con una certa freddezza scientifica: il nascere del sole significato con complicate perifrasi che ci portano in un viluppo astronomico, comune alla concezione cosmica medievale ma difficile per noi. Dice: nel purgatorio dove io ero, il sole era appena apparso sull’orizzonte, cominciava il giorno. E la notte, che s’aggira circolando («cerchia») intorno alla Terra nell’emisfero opposto a quello del Sole, calava su Gerusalemme con in mano il segno della Libra (le bilance).
Un moderno si sarebbe fermato al primo verso («Già era il sole all’orizzonte giunto») lasciando in pace la notte degli antipodi, e la Libra e le bilance, ecc.
Ma Dante, che muove a suo agio il mappamondo e lo zodiaco, ha bisogno di ampliare la visione, di allontanare orizzonti e confini: e crea la poesia dell’astronomia. Il cammino del tempo, Dante non lo misura nelle sferette dell’orologio o sul «nonnulla di sabbia» che trascorre dalla clessidra, ma dal’aspetto del firmamento. Il Purgatorio è pieno di questo entusiasmo astronomico; e anche nel nostro canto, un poco più avanti, si parla di Marte che «sul presso del mattino» rosseggia sul mare, e della costellazione di Capricorno che segna l’alzarsi del giorno. S’è detto poesia dell’astronomia; meglio dire poesia del cielo, a cui Dante sapeva guardare:
Gli occhi miei ghiotti andavan pure al cielo.
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Ma il suo entusiasmo scientifico ora è in piena corrispondenza con la sua Fede, col punto del suo cammino nel regno della purgazione. Dante, qui non è solo l’uomo Dante: è l’uomo centro e protagonista del più gran dramma dell’universo, la redenzione. Ed è lieto di poterci dire che, essendo il purgatorio antipodo di Gerusalemme, la redenzione si svolge su una linea sola; per essa, dal Calvario dove fu compiuto il sacrificio, si arriva al monte che accoglie le anime redente, avviandole alla beatitudine.
Giustifica religiosamente il suo bisogno di creare ampi sfondi cosmici. Poesia e scienza gli hanno dato il senso dell’universalità, e in qualunque punto si trovi, si sente cittadino del mondo. A rafforzare questo sentimento, gli giova quel suo sentirsi esule, a cui tutto il mondo è patria.
Piuttosto ci domandiamo: questo passo o altri simili, li accetteremo come poesia? Per Dante, il fondatore della nostra poesia, la domanda è poco riverente; e, superando la distinzione tutta moderna tra poesia e materia costruttiva, par facile rispondere: — è la poesia di Dante, che si giustifica pienamente nella profonda unità della sua coscienza, entro cui vivevano filosofia, teologia, scienza, problemi e certezze. E anche se questi motivi non sempre riescono a tradursi in immagini immediate, dalla loro conflagrazione scaturisce l’invenzione, l’imprevisto, la cosa nuova nella dimensione del poema. Scaturisce quella solennità che dà ampiezza di respiro e approfondisce il significato spirituale della sua ascensione.
Determinata l’ora del tempo, riprende il racconto.
Noi eravam lunghesso il mare ancora
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
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Dalla grandiosa poesia astronomica scendiamo alla poesia della pensosa intimità. I poeti si domandano per dove salire: — di qua? oppure di là? Quel domandare che è già un andare, l’andare del cuore. E in questa attesa solitaria e in questo sospiro appena accennato, c’è tutta l’ascesa purificatrice a cui Dante si prepara. Dante qui è il pellegrino, ed è questo stato d’animo di pellegrino che fa interiore il motivo del suo viaggio. Il quale, più che un viaggio, è un itinerario spirituale, che solo qui, nel Purgatorio, si determina bene. Nell’Inferno, era il viaggiatore spericolato che doveva difendersi dall’ira dei diavoli e dalle insidie dei burroni. Nel Paradiso, Dante non è più il pellegrino; vedete il modo come ci sale, facile, miracoloso, di stella in stella: è il comprensore della gloria e della beatitudine. Nel Purgatorio, ci va col suo patimento interiore e dolce, con quella umana accoratezza che culminerà nella sera del canto VIII («Era già l’ora...»), la preghiera più bella nel «libro d’ore» della poesia italiana.
Mentre i poeti guardano il sole giunto all’orizzonte, l’occhio di Dante è richiamato da una apparizione: un lume tenue, lontanissimo, sul mare: corre, vola, cresce. Virgilio ha capito, e invita Dante a inginocchiarsi davanti all’angelo di Dio, che fa vela a una barcata d’anime che giungono cantando.
Ed ecco, qual sul presso del mattino,
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
ed el sen gì, come venne, veloce.
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Forse è ancora bello rivedere quest’angelo nella illustrazione del Dorè, potentissima e un poco wagneriana. Ma Dio mi guardi dal commentare con idee anatomiche questa scena di mirabile linea: dall’annunciarsi del lume al rivelarsi dell’angelo, all’omaggio che Virgilio pagano fa all’angelo cristiano: (Ecco l’angel di Dio), al lume di paradiso che ci comunica, creando tutt’attorno un lago di splendore. Ognuno nota per conto suo lo stupore estatico con cui il poeta intuisce l’angelo: «un non sapea che bianco...»; il sacro entusiasmo e la maestà con cui ce lo presenta: «Da poppa stava il celestial nocchiero», la rapidità imitativa dei versi: «ed el sen gì, come venne, veloce», che è veramente un dipingere il volo.
Il Tommaseo dice che questo tragitto si fa troppo lungo: troppi gesti, troppe parole. Dice che non è un volo, tanto meno un volo d’angelo. Lo sapevamo che il Tommaseo, legga Dante o legga il Manzoni, non è mai contento; forse, chissà, per un disdegnoso gusto di misurarsi con loro. Ma chi torni a leggere i versi che descrivono «il passaggio» («tra lidi sì lontani»), vede che né le parole né i gesti sono molti, tanto meno troppi. È vero che l’angelo ha le ali («vedi come l’ha dritte verso il cielo...») ma è un angelo nocchiero che ha accettata la trasformazione umana, coi suoi limiti e col suo uffizio. E il suo uffizio, non poteva compierlo con più sorprendente rapidità. La descrizione del tragitto non può esser più veloce né più vibrata. Per volerlo essere di più, non c’era che da sopprimere il tragitto e abbandonar tutto al miracolo. Ma Dante, che scrive per gli uomini, contempera saggiamente il miracolo con l’umano, che vuol dire la poesia con la verità. Insomma, il miracolo della velocità non esclude un tempo benché minimo, né un mezzo benché piccolo, come l’aver affidato il tragitto a una barca, pur sospinta dall’ali d’un angelo invece che dal remo e dalla vela. Ci insisto: Dante non affida il tragitto al miracolo, che sopprime tutto quello che è tempo e spazio; ma l’affida a una finzione poetica che è bella se si muove nel tempo e nello spazio.
Di più: Dante, che faceva ogni cosa con un suo disegno e misura, stabilì che il tragitto dalla foce del Tevere (è da lì che partono le anime, da Roma che assolve, dal giubileo che perdona) all’isola della speranza, duri il tempo che occorre ai tragittati per cantare «verso a verso» il salmo della liberazione: «In exitu Isràel de Aegypto...» Non altrimenti fa il Manzoni durante la traversata del lago il tempo che occorre a Lucia per dire il suo Addio...
Ma questo è un ozioso litigare col critico, mentre noi dobbiamo leggere il poeta e lasciare che la pienezza della sua poesia si disciolga nelle radici della nostra coscienza e della nostra anima. L’Angelo nocchiero («Da poppa stava il celestial nocchiero...») apre la serie di queste apparizioni che, per l’armonia dei numeri, cara a Dante, son tre nell’antipurgatorio, e nove nel Purgatorio; ciascuno con un suo ufficio, una sua propria apparenza e vesti e gesti. Dante che ha visto i morti e ha parlato coi demoni, sente gli angeli come cose belle — «la famiglia del cielo» —; le loro presenze, qui, sono immagini anticipate del Paradiso, e restano nella memoria come visioni musicali. Sempre discreti, parlano poco, con voce lieta; si muovono con eleganza. Non più eleganti sono le Ore, mitologicamente rappresentate come ninfe o ancelle che si muovono intorno al carro del sole, segnando i passi dell’agile tempo. Apparizioni fuggitive, gli angeli sono ornamenti del paesaggio e paesaggio essi stessi, e aiutano a far dimenticare «i luoghi tristi», le visioni dei dannati e dei demoni.
Ora il nocchiero se n’è andato, lasciando sulla spiaggia la turba delle anime, nuove del paese, un po’ smarrite:
La turba che rimase lì, selvaggia
parea del loco...
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È l’incontro con le anime, miti, quiete, in armonia col paesaggio quieto, mite. Presto saranno paragonate a colombi mansueti adunati alla pastura, a pecorelle che escono dal chiuso, timidette. Veramente è una scena fatta di solitudine pensosa, di silenzio rotto da parole smorzate, di versi miracolosi, leggeri e estatici. La sola cosa sonora, qui, è la luce del giorno alto: «Da tutte le parti saettava il giorno — lo sol». Una scappata superba. Direi anche che la scena si può isolare: una lirica nel canto.
Il dialogo tra i poeti e le anime si svolge con gradazione sapiente, sfumata, in versi che si incurvano:
... la nova gente alzò la fronte
ver noi, dicendo a noi: — Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte.
E Virgilio rispose: — Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco,
ma noi sem peregrin come voi siete.
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È l’umana e solinga poesia del pellegrino, che si riallaccia con la medesima gentilezza, anche se con maggiore interiorità, a pagine della Vita nova:
Deh, peregrini, che pensosi andate
forse di cosa che non v’è presente...
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La scena pare acquistare improvvisamente vivacità nuova in un’immagine tutta movimento e vita : «E come a messaggier che porta ulivo...»; ma poi torna subito a smorzare le tinte in perfetta coerenza col resto del canto, fino a riposare in un verso di abbandonata dolcezza:
... al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate, tutte quante,
quasi obliando d’ire a farsi belle,
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dov’è pure una velata nostalgia della dolce terra.
Ma versi parole immagini, tutto pare un preludio a una musica maggiore, ricerca d’un incanto più rappreso, più concreato in una figura meno anonima, di più netto rilievo: la figura di Casella.
Io vidi una di lor trarresi avante
. . . . . . . . . . . . . .
come a nessun toccasse altro la mente.
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Casella, fiorentino, buon cantore e intonatore di canti, cioè musico. Di lui si sa poco: ed è quasi bello non sapere altro di lui, se non che fu amicissimo di Dante. «Casella mio...». Così non appartiene alla storia o alla cronaca, ma solo alla poesia. Correva voce che avesse musicato qualche canzone di Dante, di Guido, di Cino. Qui, sulla soglia del secondo Regno, rappresenta l’amicizia e l’arte, che gli danno il benvenuto.
I due amici si riconoscono (Dante lo riconosce non all’aspetto ma alla voce cioè alla cosa più sua), e stabiliscono tra loro un dialogo, a dir vero, un poco prosastico nell’andamento di botta e risposta; volutamente disadorno, come conviene a un discorso pratico, fatto di spiegazioni e di giustificazioni; ma affettuoso e fraterno, come ogni cosa in Purgatorio.
Chiede Casella:
«Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo, sciolta;
però m’arresto. Ma tu perché vai?»
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Perché, essendo ancor vivo, fai questo viaggio in purgatorio? Risponde:
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo questo viaggio».
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Cioè: faccio ora questo cammino per imparare a tornare, dopo morto, a questo monte di purgazione; per imparare la via della salvezza. Perciò ci riesce strana l’affermazione dell’acutissimo Contini che in una recente Interpretazione di Dante, dice che l’intenzione della Commedia «non è volta a una vita migliore, ma a un aldiquà migliore». Questo di Casella è uno, ma abbiamo sottomano almeno altri venti passi che dichiarano la vera intenzione della Commedia; nella quale l’aldiquà migliore è proprio la preparazione a una vita migliore. Alla domanda di Dante, perché, essendo morto da tempo, vi giunge solo ora, Casella racconta. Anch’egli, sì, era alla foci del Tevere dove s’adunano le anime destinate all’isola della speranza. E se l’angelo nocchiero più volte fece finta di non vederle, non gli ha poi fatto ingiuria, perché la volontà dell’angelo è fatta dalla volontà di Dio. Però, da tre mesi, — dice — l’angelo prende tutti nella barca, senza opporsi a nessuno, per l’indulgenza concessa nell’occasione del Giubileo, buona per i vivi e per i morti.
Ma com’è interessante la figura di quest’anima che attende, solinga, sulla riva del Tevere, d’esser portata di là dalle larghe onde.
Data e ricevuta vicendevole soddisfazione, i due amici tornano col pensiero e col cuore alla loro consuetudine, alla dolcezza dell’arte. Dante domanda:
...«Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto,
che mi solea quetar tutte le mie voglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!»
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Casella, ombra, non ha più corpo, non ha più il liuto, ma ha la voce, e canta:
«Amor che nella mente mi ragiona»
cominciò elli allor sì dolcemente
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con noi, parevan sì contenti
come a nessun toccasse altro la mente.
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Tanto è il rapimento del canto. Il quale diventa l’espressione più profonda dello stato d’animo di questi spiriti, l’espressione della loro letizia d’esser salvi. Nel Paradiso la letizia delle anime si fa luce, e il fatto si spiritualizza; nel Purgatorio resta umana, nella forma del canto, della voce, che è il meglio della vita.
Il Purgatorio è tutto un canto. Vi si entra cantando «Quivi per canti | si entra». Cantano i principi raccolti nella valletta: «Salve regina, in sul verde e in sui fiori...». Cori, anime sole, sui gradini delle cornici, al momento in cui un’anima esce ed è ammessa al Cielo. E si direbbero tutte scene germinate dalla scena di Casella; vibrazioni della sua intonazione e di quell’incanto iniziale. Dal quale nemmeno noi siamo dipartiti.
Noi eravam tutti fisi ed attenti
...fu men tosta.
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Improvviso cambiamento di scena; mi pare che in linguaggio musicale si direbbe trasporto di tonalità. L’incanto è bruscamente rotto dall’intervento di Catone, l’arrabbiato custode del Purgatorio:
Che è ciò, spiriti lenti?
Correte al monte...
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La musica, che è il tema del canto, sul finire entra in crisi: è interrotta, scacciata. Il canto di Casella era ancora un’eco della dolce terra, una nostalgia della passione terrena: «l’amoroso canto». Cosa poeticissima per i due poeti, cui l’arte smemora; ma non è cosa logica per Catone, custode della rigida rettitudine. Non è logico che queste anime che hanno trovato in terra la cagione del loro purgatorio, conservino nostalgia della terra, dimenticando la salvezza: «quasi oblïando d’ire a farsi belle». C’è contrasto tra la melodia terrestre e la melodia trascendentale delle superne rote, intesa nel senso pitagorico e nel senso platonico-cristiano. Ha, dunque, da prevalere la musica celeste, che ne anticipa la visione e il possesso. Giustamente Catone interviene a ricomporre la gerarchia dei valori, che non è un cancellare l’arte nella soavità dei suoi incanti.
Anche di qua, può accadere la stessa cosa. Se la poesia non si impenna «sì che lassú voli»; se si fa fine a se stessa, o resta senza «il freno» che è legge artistica e legge morale, diventa un ostacolo al raggiungimento della Bellezza suprema.
Tutto questo è drammatico, e spesso è duro da accettare, per le due facce dell’arte: quella che guarda Dio e l’altra che guarda la terra. Ufficio dell’arte, è di portare a Dio. Se allontana, o anche solo ne rallenta il cammino, non adempie più il suo ufficio.
È la lezione della nostra letteratura; lezione tanto più cara, in quanto ci è insegnata da Dante, che della poesia ci ha dato per primo il fondamento e le leggi.
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Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto
lo cui meridian cerchio coverchia
Ierusalem col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov’i’ era, de la bella Aurora,
per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco qual, sul presso del mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che’l muover suo nessun volar pareggia.
Da qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil piú lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne late ad esso m’appario
un non sapea che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscio.
Lo mio maestro ancor non fece motto,
mentre che i primi bianchi apparser ali:
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali:
ecco l’angel di Dio: piega le mani:
omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol né altro velo
che l’ali sue tra liti sì lontani.
Vedi come l’ha dritte verso il cielo,
trattando l’aere con l’etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo».
Poi, come piú e piú verso noi venne
l’uccel divino, piú chiaro appariva;
per che l’occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggiero,
tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva.
Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che parea beato per iscripto;
e più di cento spirti entro sediero.
“In exitu Israel de Egypto”
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce;
ond’ei si gittar tutti in su la piaggia;
ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che rimase lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, ch’avea con le saette conte
di mezzo il ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzò la fronte
ver noi, dicendo a noi: «Se vi sapete,
mostratene la via di gire al monte».
E Virgilio rispuose: «Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salir ormai ne parrà gioco».
L’anime che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
E come a messaggier che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi obliando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far il simigliante.
Oi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse:
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: «Così com’io t’amai:
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?»
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo io questo viaggio»
diss’io; «ma a te com’è tanta ora tolta?»
Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace
più volte m’ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’io, ch’era ora a la marina volto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
quale verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto,
che mi solea quetar tutte mie voglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la mia persona
venendo qui, è affannata tanto!»
“Amor che ne la mente mi ragiona”
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan si contenti,
come anessun toccasse altro la mente.
Noi evam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».
Come quando, cogliendo biada e loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, senza mostrar l’usato orgoglio,
se cosa appare ond’elli abbian paura,
subitamente lasciano star l’esca,
perch’assaliti son da maggior cura;
così vid’io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e gire inver la costa,
com’uom che va, né sa dove riesca:
né la nostra partita fu men tosta.
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