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CESARE ANGELINI

D’ANNUNZIO E IL QUINTO VANGELO

In C. Angelini,
Altro Ottocento (e un po’ di Novecento),
Bologna, Boni Editore, 1973, pp. 123-131.

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Gabriele D’Annunzio


Poiché D’Annunzio non è ancora un nome da antiquariato e in questo 1972 ha ancora lontani parenti, sia concesso a un modesto lettore occuparsi d’un episodio caratteristico della sua vasta produzione.
In un punto del Venturiero senza ventura, pubblicato dai Treves nel 1928, l’artista ha calato tre parabole del Vangelo lavorate, rilavorate da lui; precedute dal Vangelo secondo l’Avversario e seguite da Gesù e il suscitato e Gesù e il deposto. Le pagine hanno data del 1897, di quando furono pubblicate dalla Nuova Antologia da cui dovevano essere raccolte in volume con il titolo Il quinto Vangelo, e non furono.
È un momento della sua arte che si esercita direttamente intorno alla figura di Gesù che lo tenta, e mai il suo estetismo ha toccato punti più prevaricanti e provocatori. Nel Gesù deposto indugia, soddisfatto della sua attenzione implacabile, innanzi al Cristo del Trentacoste, domandandosi se quella bocca perfetta in vita parlava il dialetto aramaico che era quello del suo paese galilaico, o conosceva anche il greco. Attenzione non nuova, ripresa fin nei movimenti del periodo da un altro esteta: il Wilde di De profundis. Così nel Vangelo secondo l’Avversario s’abbandona a un farnetico da indovino invasato: «Ecco: son nato da un uomo greco dell’Arcipelago e da una donna aulentissima di Gerico l’aulente... Mi muto? mi trasfiguro? Lo so, un nuovo dio mi feconda; sono in travaglio di una nuova divinità».
Nello stordimento dell’eccitazione, il poeta trabalza, colpito da vertigine, e il travaglio lirico, se c’è (ma non c’è) resta sotterraneo. Quel che appare è che egli è oppresso da incrostazioni letterarie e parla con le parole imparate sui libri, mescolando Cielo d’Alcamo («rosa fresca, aulentissima...») col poeta latino («est deus in nobis...»).
Ma dicevamo delle tre parabole: il Figliol prodigo, tornato alla casa paterna, non è contento dell’accoglienza del padre che pur ha fatto di tutto per riceverlo bene (abbracci, la veste nuova, l’anello d’oro, il vitello più grasso), e rimpiange le eleganze di cui ornava la sua vita nel paese lontano: le tazze armoniose, le donne sempre nuove, e le musiche e i canti.
L’Epulone e il povero Lazzaro, e le Vergini stolte.
Lazzaro, già nel seno di Abramo, sugli inviti che l’Epulone gli fa dagli inferi, ripensa alle dolci cose che ha lasciato in terra e non ben godute; e, protendendosi perdutamente verso di esse, in un impeto di bramosia, precipita nel vuoto e si perde.
Le vergini stolte escluse dalla sala del convito, dimenticata la porta chiusa, s’avviano per sentieri battuti dalla luna verso colline già pallide nel fiato della prim’alba e intonano un canto: — Ecco il sole che sorge! andiamogli incontro danzando. Un comportamento da «allegre comari».

Dalla sua esposizione ornata di particolari squisiti, le parabole emergono in una loro dorata seduzione. Ma sfigurate, svuotate, vuote. Distorte a significazioni insensate, le parabole della salute diventano le parabole dell’allegra dannazione. Solo un artista che identificato la coscienza morale con la coscienza estetica fino ad annullarla in essa, poteva arrivare a questa infedeltà. Empietà? Pur cedendo alla costante e prava attrazione di violare il sacro, D’Annunzio non ha mai scritto con la mente di offendere delle cose sante; neppure quando con una materia fin troppo docile di novenari sfilacciati, parve insultare «al Crocifisso — e alla sua Vergine Madre — vestita di cupa doglianza...». D’Annunzio, negato a dire parole utili, è pur negato a capire le immagini della sofferenza e ciò che è germinato nel dolore. Il lutto non si addice a Gabriele.
Seguiamolo anche più da vicino sul terreno più suo, quello dell’arte unicamente sentita sub specie pulchritudinis. Dice: «Ogni sua parola (di Gesù) mi vien fatto di prenderla spirante nella mia mano come un vaso di argilla appena staccato dalla ruota e messa a seccare sopra la tavoletta. Rimpasto l’argilla arditamente, e la restituisco alla ruota e la rilavoro con la più nobile arte sámia, infondendole il ritmo col piede che sul perno sa la musica».
D’Annunzio, fattosi vasaio, non poteva meglio scoprire la formula della sua arte: divertimento, gioco, contaminazione. Ma dov’è l’accrescimento che dice di fare della parabola? A parte che il suo vero genio è verecondo e rispettoso della persona altrui e non vi si sovrappone, egli non fa che aggiungere stucchi, addobbi e falsi finimenti. Cos’è più il dramma del Figliuol prodigo dopo che lui ci ha messo mano e l’ha svuotato della sua verità umana e divina? Più sopra, si è cercato di assolverlo dall’empietà religiosa; ma più difficile è assolverlo dalla temerità artistica con la quale ha distrutto il capolavoro di Luca, spegnendovi anche quel fiato greco spirante nel suo puro narratore.
E vogliam insisterci un poco. «Un uomo aveva due figliuoli. I quali si chiamavano Elihu e Carmi, e vivevano entrambi nella casa del padre, levandosi la loro giovinezza eccellente come i cedri presso le soglie sicure. E, mentre il maggiore, a fianco del padre noverava la sacca del grano, il più giovane insidiava le piccole volpi che guastano le vigne fiorite. E mentre quegli a fianco del padre noverava le mine prodotte dal traffico, questi spiava le donne mercenarie che riponevano nei vaselli il mele, il nardo e il croco, accompagnando col riso e col canto il lavoro odorato...».
L’ambiente familiare è ricreato con nettezza di colori e d’armonia, con l’aiuto d’un parallelismo e di immagini locali e temporali che l’artista peritissimo ha utilizzato al suo scopo: da quella giovinezza che si leva eccellente come i cedri («florebit sicut cedrus») alle piccole volpi che guastan la vigna fiorita («capite nobis vulpes parvulas quae demoliuntur vineas: nam vinea nostra floruit»). L’artefice lusinga la sua golosità insaziabile versando sulla pagina tutti gli unguenti che odorano i cellieri della Sunamite del Cantico. Proprio quel lavoro di amplificazione maldestra (confessiamoci un poco) che un po’ tutti talvolta abbiamo sentito la tentazione di fare. Ma, quando onestamente s’è voluto trovare le ragioni che vi ci inclinava, s’è visto che era una vana passione di ornato per «abbellire» la nostra officina di artisti falliti. Insomma, un modo di coprire la nostra povertà interiore.
È ciò che forma il così detto incanto della pagina dannunziana, senza mai voci umane, né volti. E poiché il discorso, a esser concreto, ha bisogno d’un punto di riferimento, fate che per un momento del suo silenzio pudico Lucia sporga il volto sempre pronto a fiorire di rossori (o parli Renzo...) e si creerà quel vero incanto che è fulgente sostanza di creature vive, di anime vive. L’incantesimo dannunziano nasce dagli illuminelli di cui la pagina è colma, come le aiuole del giardino di Armidia e della sua potenza maga. Vien in mente quel che il Bartoli dice d’un novellino della scuola d’Apelle che, non venendogli fatto ritrar bella un’Elena che dipingeva, la fece ricca, infrascandola tutta e infiorandola donnescamente di gioie.
È la ricchezza di D’Annunzio ed è la sua miseria, che toglie alla sua pagina la schiettezza di prosa italiana, dandole non so che eccesso orientale. O, se la vogliamo italiana, fa pensare a stagioni di ambigui splendori e di decadenze palesi denunziate da lussurie linguaiole. Un vizio antico, e non nuovo, che in D’Annunzio diventa una ricetta agevolmente imparata. Sicché, chiunque abbia ingegno e ambizioni di coltura, può fare del D’Annunzio, realizzando con gli stessi mezzi puramente e impuramente esteriori e decorativi. Sentite: «Nell’aspettazione di quanto mi dirai, già sono commossa; tu stai per dirmi cose ineffabilmente notturne, come la sera profonda che mi entra nelli occhi e l’odore dei fiori così soave che quasi ne ho pena».
Chi parla con tutta questa unguentata dolcezza? Sentite ancora: «Certo costui che mi parlava presso, doveva essere un hjeronimo, uno di quelli che nel corno dell’altare, risponde a un nome sacro e intenzionale».
Non è questa la bocca magniloqua del D’Annunzio? Non son queste le sue parole sensibili come gli anemoni o i fiori piegati dal vento? No, questa è la bocca lucente dell’allucinato Lucini che, in Nottole e vasi (e non lì solo) è riuscito, su una materia ellenistica, a raggiungere gli stessi effetti di dilettazione e di prevaricazione che D’Annunzio ha raggiunto su materia evangelica, realizzando con la stessa falsa aristocrazia di immagini e lingua e numeri e colori. Certamente costui gli fu collega in noviziato.
Ma — suggerisce il Serra, parlando del D’Annunzio, — «noi conosciamo luoghi dove la sua voce è più pura». Torniamo dunque a quelli.


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