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CESARE ANGELINI

D’ANNUNZIO

In C. Angelini, Notizie di poeti,
Firenze, Le Monnier, 1942, pp. 90-94.

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Gabriele D’Annunzio


È entrato nella poesia con degli elementi di novità inquietante; inventare il passato e ricordare il futuro, non è sempre stata la sua temeraria abilità? Dottrina lirica e sentimento di magìa, che hanno molto turbato la immagine pura e sola della poesia, sconcertando il lettori che si chiedevano: è? non è?
Ma oggi l’intesa è comune quando si tratta di circoscrivere la porzione della frondeggiante selva dove una colomba indica ai cercatori il ramoscello d’oro: le Faville del maglio, scritte con mano odorosa di luce nascente; il Notturno, che appartiene alla storia della musica sinfonica prima che a quella della poesia; e Alcione, la parte più ferma del suo dono.
Tutti sanno individuare gli elementi in cui s’è sciolta la sua ricchezza, il suo dono. D’Annunzio parla un suo linguaggio, posseduto da una memoria armoniosa di tutto il passato ghiottamente vendemmiato nei punti più dolci; sicché la sua pagina è continuamente abitata da echi, strumentata da timpani sommersi, balenante di raggi sepolti, marezzate d’essenze ch’egli ha spremuto da tutti i poeti e, accogliendole nel suo spirito così alacre a lievitare, ha magicamente trasformato e fatto sua musica e miele.
Ne è uscito quell’aroma che solum è suo; quel che di virgineo e ridentemente nativo egli ha restituito alla lingua «bevuta profondamente ai fonti», e fa del suo vocabolario luce che ride, aria che fiorisce.
Più interessante si fa il discorso quando s’aggiunge che questo linguaggio è la rivelazione della sua inventività estesa fino al prodigio; innanzi ai cui risultati esaltandosi, una volta si dichiarò «affine a Dante». Ora egli disse anche che la follìa non è più ricca di lui; ma è vero che, a forza d’affinarsi e rarefarsi, D’Annunzio è riuscito a dire l’ineffabile; a scolpire il vento, a rendere il fruscìo della luce, il tinnir della pietra sotto il peso del cielo; a dare con le parole l’odore d’una foglia, la verità d’un fiore che rumina luce.
Da questa ebbrezza d’invenzione, da questa piena di sensazioni, insomma, da questa immersione panica nelle cose, nasce la gioia del poeta, che costituisce il suo stato d’animo, il suo mondo, tutto quel che di vivo c’è in lui e assolve il suo canto.
Eppure rimaniamo scontenti; e ne nasce un sospetto: prodigio o prestigio? Temiamo che tutta questa felicità d’eloquio, dovizia d’immagini, sensibilità «per sé stante e sonante» non sia altro che abilità che s’esaurisce in compiacenza vocale e immaginifica, il gusto del ritmo e dell’aerea modulazione, quasi piacere di vasaio al tornio.
Dopo quel che s’è detto, non proporremo più a D’Annunzio la quistione se è lecito i mezzi espressivi ricercarli per sé stessi, o possederli per adoprarli in funzione di vita. Domande inutili. D’Annunzio, per il quale la forma non è una veste ma il corpo stesso dell’opera d’arte, per suo conto ha realizzato dell’arte anche fuori d’ogni umana esperienza e funzione. Così resta il rappresentante imponente d’una generazione che ha ridotto l’arte a pura sensazione, cioè a pure visione e audizione. Ma dev’essere lecito ricordare a noi quei doni di sensibilità, in varia misura comuni a tutti i poeti, messi in servizio di un’opera o di un mondo morale, hanno sempre acquistato bel altro valore e ci hanno dato l’arte universale e eterna. Lasciati istintivi e aerei, ci dàn l’idea d’una allegrezza dileguante, dileguata. La formula «l’arte per l’arte» non è meno irrazionale dell’altra, trasferita in campo attivistico: «lotta per lotta»; né meno corruttrice e pericolosa.
D’accordo che l’essenza dell’arte — specialmente dell’arte dannunziana — è da ricercare nello stile. Il guaio è che la sensibilità di D’Annunzio, lasciata nel suo bianco splendore, troppo spesso si esaspera, perdendo, ahimè, proprio il rigore dello stile «per cui tutto vive e tutto perisce». Basta vederlo in una situazione lirica, una qualunque. D’Annunzio sa di lavorare per la sua gioia pura, e fin che non ha esaurito tutto il bagaglio dell’espressione e non ha buttata fuori l’ultima immagine, non si placa. Scrisse una volta: «Io sono un’eroica volontà d’invenzione e d’espressione». Dichiarava superbamente una cosa molto povera: il suo limite e il suo squilibrio. Che gli manca, è proprio la volontà; che non interviene a custodire il discorso, a porre il freno. Come l’altra volta che si definì «immaginifico», denunziava da sé la sua malattia. E cito ancora, che mi diverto. Scrisse d’esser nato con gusti d’umanista e principe del Cinquecento. Una cosa detta per ridere? ma è quasi tragica: senza volerlo, il Principe di Montenevoso confessava d’esser un poveruomo spaesato. Proprio qui è la radice del suo errore: nell’aver voluto vivere da umanista e da principe del Cinquecento, creandosi quel particolar modo di vivere che disse «inimitabile». Ne derivò una retorica che gli incrostò tutta la vita, e tanta parte dell’opera. Dal vivere inimitabile, allo scrivere inimitabile.
Ahimè, abbiamo detto quasi male del D’Annunzio, mentre gli siamo debitori di molti incanti. Da molti anni egli ci nutre col suo miele; e i più belli della generazione vociana (Soffici, Serra e lo stesso Papini) passandogli vicino si sono spesso provveduti del suo lume allegro. Diversi da lui, ma non senza qualcosa di lui. E anche oggi, tra tanti scribi veloci (che magari lo dicono ingombrante, ma è forse solo imbarazzante), c’è chi tempra la pagina della sua perizia esatta, nell’aroma di un suo frammento silenziosamente scosso. È degli anni trenta l’Antologia dove sono accortamente allineati cinquanta prosatori d’arte del nostro tempo, e il capofila è lui, D’Annunzio. Il quale sarà sempre cercato, da temperamenti d’artisti, ogni volta che uno vorrà trovare un maestro di quei mezzi espressivi che sono un avviamento all’arte: amor vivo al vocabolo, al colore, all’immagine, ai sottili segreti del ritmo. Molte sono le pagine che resteranno come strumenti di atelier, materia di studio, aiuto all’invenzione.
Certamente l’arte oggi batte altre strade, e massime la prosa. Meno nuziale e spaziante, ma ricca d’un ardore più raccolto, tocca da qualcosa di più intimo, assistita da una coscienza più seria. Meticolosa e affabile, scaltrissima e naturale. Non vuol essere grande; vuol essere schietta, comunicativa, umana, insomma; pur senza rinunciare a quel tanto di magico e arcano che presidi l’arte e l’alimenta. Un nome: Emilio Cecchi; la cui lode, ridotta a epigramma, e sul suo punto più degno, si potrebbe proporre con parole del Foscolo, così: «Viaggiò in Grecia e ne scrisse».


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