CESARE ANGELINI OMAGGIO A CROCE
In C. Angelini,Cronachette di letteratura contemporanea,Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 73-79.
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Ognuno di noi, qualunque sia il suo orientamento spirituale e l’educazione e l’abito e gli umori, ma che della cultura faccia una condizione di civiltà e di vita e, direi, un aumento di onestà, deve qualcosa a lui: chi più, chi meno, a seconda della sua capacità a prendere da un uomo che tanto ha donato. Molto Croce vive in noi, anche in chi non lo confessa. Non dico dei suoi imprestiti scientifici e culturali, ma del suo esempio di lavorare e pensare, severamente, che parve a tutti nuovo, ed è un vivere interno ed intenso.
E ognuno ha il suo «episodio» con Croce, che vorrà narrare in forma di ricordo o di riparazione o di ringraziamento. Il mio, mi è tanto più caro in quanto c’è di mezzo Renato Serra.
Erano gli anni ch’ero capitato a vivere nella più pura città di Romagna, Cesena; e Serra, che aveva scoperto qualche piccolo pregio in un mio quadernetto andatogli timidamente tra le mani — ma lo riguardava troppo da vicino, parlava addirittura di lui — mi consigliò di mandarlo a Napoli, al Croce. Aggiunse: «Vedrà che lo leggerà e le risponderà». Croce infatti lesse e rispose: alleggerissi le pagine di qualche indugio lezioso e fastidioso, e le mandassi alla Voce di Prezzolini come a luogo naturale: forse le avrebbe pubblicate. Per una disciplina cui mi piacque esser docile, le tenni invece nel cassetto. Ma il buon consenso di Croce mi rallegrò, e glie ne fui grato come d’un credito che mi faceva e d’uno stimolo al lavoro.
Come fu, dunque, che poco dopo e proprio sulla Voce passata da Prezzolini a De Robertis gli dissi contro male parole [Cesare Angelini, Pascoli e Croce in La Voce, anno VII, 15 luglio 1915, numero 13, ndr] con una sufficienza gratuita che ancora oggi mi umilia? In quel tempo Croce «aveva detto male» del Pascoli. Ed io, che le Myricae le leggevo quasi per divozione, e a San Mauro di Savignano ci andavo da Cesena ogni settimana come in pellegrinaggio, anch’io mi ritenni offeso. Quasi un fatto personale. Toccava un mio amore; mio e di tanti, in quegli anni sensibili in cui era ancor lecito ammalarsi di pascolite. Più tardi (ma molto più tardi) capii quanto sciocca era la mia irritazione. Anche nel caso del Pascoli, Croce non mutilava ma purificava, non negava ma ripuliva, e le sue osservazioni sul poeta romagnolo — fra tant’altre fluide e sempre perplesse — rimangono ancora oggi severe ma ferme e orientative. A ogni modo Croce era un uomo troppo superiore per volermene male; e mentre so che quel «quadernetto serriano», con verdissima memoria e sorriso benevolo, ancora negli ultimi suoi anni ne accennava ad amici, dalla sua bocca seppi che quell’altre mala parole egli intese e giustificò come un giovanile amore di poesia; quell’amore per il quale ben più gagliardamente egli spese i suoi grandi e fecondissimi anni. E non conosco più cristiano umanismo di questa comprensione. («Si ricorda quando per la prima volta, nel 1912, lei mi scrisse dal Seminario di Cesena? Il suo nome è restato da allora congiunto nel mio animo con quello del povero Serra».)
L’ultima volta che lo vidi fu nel ’30 (o ’31), proprio in questo Borromeo, dov’egli era venuto per incontrarsi (che da anni vi era ospite) col poeta russo Venceslao Ivanov. Ricordo quel loro colloquio su cose di religione e di lettere come un’impegnatissima lotta di due giganti cortesi. L’amico di Merezkovkji, convertito da poco al cattolicismo, spiegava il suo fervore di neofita; il nipote di Spaventa difendeva le sue posizioni idealistiche col sentimento con cui si difende un’eredità. Un vento di foresta soffiava sulle loro parole.
Ma per sapere che avvenimento fu il Croce per la cultura italiana (la Critica è del ’903 e l’Estetica del ’902), bisogna essere stati giovani ancora verso il 1910 quando ampiamente si respiravano i benefici del suo rinnovamento prima delle arbitrarie applicazioni e esasperazioni. Naturalmente non parlo della sua filosofia: e chi la conosce tutta?; e a troppe astiose «postille» egli ha ceduto, non tutte serene. Ma, al di là delle riserve, resta il valore morale del suo insegnamento, che è grande; restano i suoi meriti che non sono facilmente elencabili, specialmente nel campo della critica letteraria, che è il più suo. Rinnovamento di coltura per il Croce voleva dire rinnovamento di spirito, e la serietà del metodo e la sincerità della ricerca in una religiosa tenacia di volontà. Croce insegnava che bisogna leggerli i libri, prima di parlarne o di citarli; che bisogna studiarla la storia d’un soggetto prima di trattarne. E combattè la superficialità, il dilettantismo, l’equivoco decadentismo e i fabbricatori del vuoto, per giungere a schiettezza di coltura e sanità di gusto. L’influenza esercitata dalla Estetica fu immensa. Non partita dall’università, entrò nelle università e nelle scuole e in tutte le biblioteche. Con l’estetica o scienza della espressione, Croce ha aiutato a chiarire, a ripulire il concetto della poesia. Se l’arte è l’intuizione, è chiaro il carattere fondamentalmente lirico d’ogni opera d’arte. E, partendo dalla abolizione dei generi letterari, è arrivato alla distinzione fra struttura e poesia o poesia e il diverso dalla poesia, o, più semplicemente, poesia e non poesia, che è la semplificazione di molte situazioni e problemi. Viva è anche l’altra distinzione fra poesia e poesia della poesia, che è tutt’altro che un gioco di parole. Croce ebbe naturalmente una scuola, che si disse dei «critici nuovi»; i quali, dando alle loro origini presupposti filosofici, parvero opporsi a critici di stampo vecchio o di puro metodo storico-filologico, e che non diremo carducciani per rispetto al Carducci, benché dessero occasione alla «polemica carducciana» del 1912.
Fedele alla sua estetica, Croce ha sollevato secoli che parevano decaduti; ha reso giustizia a scrittori dimenticati, ha risuscitato libri trascurati; ha riveduto tutti i nostri poeti dell’Ottocento, i maggiori e i minori (e i forastieri), in medaglioni pressoché definitivi e con giudizi ai quali si dovrà sempre tornare ogni volta che si vorrà discorrere di alcuno di essi. Ha sollecitato l’interesse per il Vico; ha fatto conoscere agli Italiani De Sanctis, difendendolo dagli attacchi carducciani.
Punti deboli nella sua critica? Certo, ce ne sono; dovuti più che altro alla rigorosa coerenza del suo sistema.
Ma oltre alla potentissima coltura, alla forza del pensiero, alla ricchezza del gusto, alla pienezza dell’informazione, alla sincerità del lavoro, che fanno di lui un maestro, in Croce è particolarmente da notare la chiarezza, la nitidezza della scrittura. Un giorno, Giacomo Debenedetti volendosi occupare dello stile di Croce, lo trovò nel ritmo della sua prosa, quasi costume di sapienza stilistica; per concludere che, sopra le mode che ci infestarono e c’infestano, Croce è stato in questi decenni il nostro scrittore più potente, certo più italiano. Che non è l’ultimo suo insegnamento. (Dice che dovere dello scrittore è quello d’essere italiano anche quando scrive.)
[1946]
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