CESARE ANGELINI UN RICORDO DEL CONVEGNO
In AA.VV., Per Cesare Angelini.Studi e testimonianze,a cura di Angelo Stella,Firenze, Le Monnier, 1988, pp. 81-82.
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“Il Convegno” diretto da Enzo Ferrieri. In questo numero la collaborazione di Cesare Angelini, con Discorso con l'anima mia.
Archivio “Cesare Angelini” |
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Quando alcuni giorni fa, Ferrieri mi ha telefonato invitandomi all’inaugurazione della mostra documentaria delle cose del Convegno, io ho cavato fuori da cassetto le cento o forse duecento lettere che il caro amico mi scrisse tra il 1920 e il 1930.
E questo è stato un mio modo silenzioso e privato di anticipare la mostra documentaria; anzi, di raggiungere la lontana nascita della rassegna.
Nella mia mente si son subito ricongiunti i due inviti: quello per la cerimonia d’oggi e quello del 12 gennaio 1920, data della lettera in cui Ferrieri mi annunciava il proposito della sua impresa... «Onestà e vita dello spirito...». La rivista era subito messa sotto un’insegna un poco intimidente.
Certo, tra i molti consumatori di poesia che hanno frequentato il Convegno, io devo essere stato uno dei primi a varcarne la soglia, quando trasferì la sua sede in via Borgospesso, una viuzza appartata e mossa a manico di violino, e sulla quale stranamente, nell’ora del tramonto, pendevano sempre fiocchi di nuvoli verdi, di nuvoli rosa, quasi annunzi di nascite... Sì, annunzi che lì nasceva la poesia... Ricorderò — se mi permettete — la mia prima visita al Convegno. Sulla soglia delle belle sale, mi venne incontro lui, Ferrieri, cordialissimo, come se ci conoscessimo da anni. C’era Linati — il povero Linati —; c’era Eugenio Levi: quelli che dovevano essere, che furono, i fedelissimi: come le pietre della casa, i mobili delle sale... E c’era, fresca e ridente — come di moda trent’ott’anni fa — una fanciulla, detta la cognatina, la Segretaria tra Ferrieri e la poesia.
Insomma, la rivista era in buone mani; oltre che dentro buone intenzioni, quelle del Direttore. Il quale voleva raccogliere in quel dopoguerra, quei non molti scrittori che avessero qualche cosa da dire, che liberamente si conformassero a una certa disciplina di purità artistica, e, trovandosi insieme, contribuissero a istituire un ordine, qualche cosa a cui credere e a cui restare fedeli. Fare un po’ di buona poesia per ogni giorno e per il nutrimento dell’anima, come si fa il pane, perché non manchi alla mensa.
Il motto della rivista era «Accademia di nessuna accademia»; avvertiva da subito che essa non voleva guardare la nostra letteratura da un punto di vista troppo particolare: fabbricarsi una tendenza, con escludere le altre. Ma seguire, piuttosto, un criterio antologico: che del resto era il meglio che si potesse fare con un materia così particolare e sensibile com’era la letteratura del 1920.
Il Convegno non era nato nemmeno come espressione di un gruppo lombardo... mio Dio, è certo che con uomini come Ferrieri, Linati, Levi, collaboratori continui la nota di pedale finiva per dar suono lombardo; ma si capì subito fin dai primi numeri che la rassegna era nata col fine di offrire a un pubblico largo miglior cibo, che non fosse solito avere... Alla fine, era la sola rivista che usciva in Italia: la Ronda, il cui impegno era stato pur grande, era ormai moribonda, e la Fiera non era ancora nata.
Quello del Convegno non era di un piccolo impegno.
Ma il Convegno lo assolse con molto decoro, con un’assoluta mancanza di orgoglio: con una grande modestia.
E fu proprio la modestia a conferirgli autorità.
La quale crebbe anche per i nomi e il numero dei collaboratori. E non era Ferrieri che andasse a cercarli, erano loro che venivano da Ferrieri: e si chiamavano Panzini o Papini, Pirandello o Croce o Prezzolini, Baldini, Burzio, Cecchi, Bacchelli, Prampolini Cigognani, Tittarossa, Pancrazi, Pellegrini, Ricc. Balsamo Crivelli, Valeri, Ravegnani, Angioletti, per nominare quelli della prima generazione.
Ogni mese la rivista usciva puntualmente ornata di questi nomi, colma delle loro pagine: un dono atteso da tutti noi, ansiosi consumatori di poesia.
Ma il Convegno non fu soltanto rivista mensile; nel 1922 fu anche circolo di coltura, con letture, conferenze, cicli di conferenze.
Questo ne aumentò il credito e il nome: Convegno inteso veramente come un luogo di incontri: un centro dove conveniva il meglio della coltura e letteratura di allora; incontri o il piacere di farsi compagnia, occasione di conoscenza, umanesimo che oggi va scomparendo e le anime, anche dei letterati, s’impoveriscono. Lì abbiamo conosciuto Ojetti, la più bella caramella del tempo; lì Ada Negri che pareva sempre camminare sul ritmo degli endecasillabi sciolti; Pastonchi ci arrivava per certe dizioni dantesche o dannunziane. Lì abbiamo ascoltato conferenze manzoniane dense come quelle di Attilio Momigliano, melodiose come quelle di G. A. Borgese sui maestri dell’Ottocento; metafisico-profetiche come quelle di Clemente Rebora.
Lì abbiamo visto Italo Svevo, e, tra gli stranieri, Paul Valéry.
Casa Editrice, e non dico la gioia che più d’uno ha provato nel vederci pendere dall’albero del Convegno.
Nel ’24 nacque il piccolo teatro dell’arte, prima di quello di Pirandello, nel ’26 il circolo della Cinematografia d’avanguardia e d’arte. A qualcuno parve che si disperdesse. In realtà si ridimensionava.
Verso il ’28-30 il convegno rivista si trovò in una seconda giovinezza, col sopraggiungere forte, pollente della generazione nuova: in capo a tutti Guido Piovene, poi Robertazzi, Vitaliano Brancati, Buzzati, Borgese junior, Gadda uno e due. E abbiamo detto il meglio delle lettere d’oggi. E una cosa abbiamo lietamente notato: che la seconda generazione, pur coi suoi nuovi acquisti, si è saldata con la prima molto naturalmente; senza contraddizioni di linguaggio sostanziali. Era la prova che il gusto del Convegno non aveva seguito alcuna moda, o etichetta, o apparenza; ma ha seguito e perseguito quei valori umani attraverso i quali i giovani ricercano la loro unità morale e quindi, i loro modi espressivi.
Nel giro breve di questi appunti è accaduto di fare molti nomi. Ma il Convegno è soprattutto un nome, una voce: la voce di Ferrieri.
Il quale, nato per essere scrittore, più umilmente ha voluto essere l’amico di molti scrittori: nato per scrivere pagine, ha rinunciato a scriverne nessuna. Ma egli vive nelle pagine di molti.
E soprattutto nel cuore di molti, che hanno avuto da fare con lui, che sono stati beneficati da lui; ché l’incontro con Ferrieri non resta una semplice conoscenza, diventa un’amicizia amicizia posta sotto un’insegna: onestà e vita dello spirito.
E proprio di questa lezione che oggi noi lo vogliamo ringraziare.
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[Pubblicato a cura di Anna Modena, la quale, in proposito, scrive: «Quando nel ’56 Ferrieri inaugurerà un teatro, in via degli Omenoni, un invito di Angelini per una conversazione in Borromeo interromperà un silenzio pluridecennale; Ferrieri non venne a Pavia, ma i nodi dell’antica consuetudine si erano riallacciati e, per una mostra documentaria del Convegno che si tenne poco dopo, probabilmente nel ’58, Angelini preparò, dietro sollecitazione del vecchio amico, un discorso commemorativo; non si sa se sia stato letto, o, meglio, in che redazione sia stato letto (idee ed espressioni sono infatti riprese in vari saggi editi e nelle lettere). Alla libertà della nipote Margherita, affettuosa custode delle carte angeliniane, dobbiamo la visione del manoscritto di cui diamo qui di seguito la trascrizione. Benché si tratti di un testo non definitivo, vi si scorge un vivace profilo della rivista, nella cui vicenda vengono individuate due generazioni di scrittori, e una positiva valutazione del ruolo di direttore e di animatore culturale svolto da Ferrieri. (...)».]
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