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CESARE ANGELINI

LA LOMBARDIA DI CARLO CATTANEO

In C. Angelini, Nostro Ottocento,
Bologna, Boni Editore, 1970, pp. 205-211.

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Carlo Cattaneo


Tra le poche e iterate letture che hanno accompagnato la mia fanciullezza lombarda e campagnola, trovano ora un particolare ricordo nella mente le Notizie naturali e civili sulla Lombardia di Carlo Cattaneo; e credo che proprio ad esse e al loro senso fantastico io devo la scoperta della mia terra come favola e come bellezza. Forse devo pure ad esse certa disposizione ad accogliere in me il sentimento delle stagioni, le voci della terra e i suoi silenzi, la vita della acque e le misteriose ombre dei boschi nelle vivide estati, quando l’aria per troppa luce par farsi scura. Le potenti suggestioni di quelle pagine austere! Quella, per esempio, dove parla delle solitudini montane e del «forte alpigiano che ha cuor d’inseguir le pedate dell’orso, e anche oggi non si sa, in faccia alla taciturna natura, difendersi da quella tetra e arcana ansietà che egli chiama il solengo».
Fanciullo, mi colpiva l’intensa sensazione cosmica calata nelle voci dialettali, che io sentivo dalla bocca dei miei vecchi e di mio padre, umilissima razza di fattori e campari d’acqua: patire il solengo, a dare il senso pauroso e un po’ superstizioso di solitudine dell’uomo o d’altro animale che si trovi a lavorare o a pascolare in luogo lontano dal domestico e dall’abitato.
Scrisse Emilio Cecchi che il Cattaneo «ha il senso fantasmagorico delle origini, delle migrazioni, delle civiltà scomparse»; e tra i moderni egli era forse il più adatto a scrivere l’Omaggio a Cattaneo, per qualche consonanza di talento intellettuale. Certo quel sentimento vichiano delle lontananze, dà un che di solenne e grandioso alla pagina delle Notizie, e ci aiuta a raggiungere le remotissime origini della nostra terra «in quelle età geologiche che sembrano ancora un sogno della immaginazione». Dalle sue parole, come dai versetti d’una genesi, vediamo emergere, squarciando il fondo del mare, l’ammasso delle rocce granitiche e farsi monti; accumularsi sedimenti e depositi e collocarsi nella «giacitura orizzontale» della pianura; prodursi le «profonde squarciature » dei laghi che accolgono le piene precipitose dei monti «e le porgono (notate il garbo del verbo), rallentate e chiare, ai fiumi».
Attraverso un linguaggio che ha la precisione della scienza e il soffio della poesia (il Cattaneo prediligeva la poesia della scienza) assistiamo alla nascita di questa nostra terra che, collocandosi tra il Piemonte e la Venezia sorte per opera d’altre eruzioni, entra, sotto il sublime arco delle Alpi, nel panorama settentrionale, «quasi adempiendo un disegno unitario della natura». Così, tra il Verbano e il Ticino da una parte, il Benaco e il Mincio dall’altra, corsa da giovani fiumi e dal poderoso Po che la lega all’Adriatico, sparsa di laghi che ne specchiano la bellezza, ricca di mirabili attitudini d’aria e di cielo, la Lombardia, che ancora non si chiamava così, preparava il destino agricolo del popolo che doveva abitarla. «Poiché in ogni parte del globo giacciono predisposti gli elementi di qualche grande compagine che attende solo il soffio dell’intelligenza nazionale».

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In pagine personalissime e di alta potenza drammatica, il Cattaneo ci presenta questo popolo forte e la casta sacerdotale dei Druidi che erigevano i loro altari «nei recessi delle vietate selve, dove accumulavano tesori all’aperto, custoditi dal terrore del luogo». Senza casa, senza città, senza alcuna dolcezza domestica, vivevano «ingrossando prede di barbara gloria, spargendo passeggere semine di una agricoltura vagabonda».
Con lo stesso linguaggio dove ogni parola fa immagine, passa a parlare dei Galli, che vi irruppero fissandovi lunga dimora e improntando di sé la regione detta ormai Insubria o Gallia Cisalpina. Con orde travolgenti, scesero in guerra contro le legioni romane. «Più volte le legioni vennero conquise e trucidate: ma parevano risurgere dai sepolcri».
Vinti i Galli, «tutto diventa romano»; e la Cisalpina ebbe leggi, municipî, ponti, ville, fontane ammirate dal giovane Plinio «il quale descrive le letizie del suo Lario con quella mano che fu la prima a difendere l’innocenza del costume cristiano». Ebbe portici, terme, scuole, «ove imparò un Virgilio». Terra già vastamente irrigua, la nostra fu solcata da aratri, si coprì d’ubertosi poderi, di fiorenti vigne, di placidi praterie «dove i garzoni di Virgilio aprono e chiudono i rivi». La narrazione irrompe esultando nel celebrare questa prosperità nuova e grande portata dai Romani fra noi: «Mai si vide più alta dottrina di sapienti e autorità di legislatori».
Non meno vibrate e potenti, le pagine nelle quali ci presenta il decadere di quel popolo, in seguito al corrompimento del costume interno e sociale («Bastò un computo di finanza... per rivelare al mondo attonito che quel popolo non era più»), e al calare dei barbari che guardavano dalle frontiere. E l’Insubria li vide passare diversi di costumi e di armi, ma uguali nella sprezzante arroganza degli invasori. Passarono i Goti, uccisori di Boezio tra le mura di Pavia, e distruttori spietati di Milano. Passarono gli Unni, pascendosi di carni crude sotto i portici di marmo dei palazzi imperiali. Passarono i Longobardi, lasciandoci — col ricordo d’una lunga oppressione — qualche nome di bella ispirazione: Adelchi, Ermengarda, e un altro nome: Lombardia. Passarono i Franchi, carichi di ferro e di potenza, distruggendo un regno senza saperne fondare un altro. Nei momenti più gravi, il Cattaneo ha sempre un grido di fiducia e di nobile orgoglio: «La nostra patria doveva risurgere». «La nostra terra era pur sempre terra di promissione».
La nostra patria..., la nostra terra... Che ora, dopo le invasioni, ha un nome: Lombardia; e un preciso destino, naturalmente agricolo. Sicché il Cattaneo può scrivere: «Per arte tutta nostra, la nostra pianura verdeggia anche nel verno, quando tutt’all’intorno ogni cosa è neve e gelo». E ancora: «Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani».
Il Cattaneo segue lo svolgimento del suo piano storico anche nell’epoca moderna, dall’apparire del Carroccio («quello stuolo di devoti che con la picca in mano si stringe intorno al Carroccio consacrato, è il primo rudimento della moderna civiltà») al feudalesimo, ai Comuni, ai Visconti, agli Sforza, agli Spagnoli, fin su alla fine del Settecento, alternandosi momenti di decadenza e momenti di rinascente civiltà. Venuto meno il senso di mistero proprio dell’età leggendaria, il suo stile par farsi meno appassionato, e l’effetto è minore. Ma, alla fine, è stile diversamente efficace, mai debolmente coltivato; ed escluso ogni commosso tono di eloquenza, le pagine si stendono in «relazioni» più riposate, in descrizioni affabilmente rurali.

Non si fa torto a nessun altro scritto del Cattaneo a ritenere che le Notizie, nate nel 1844 come scritto d’occasione, sono il suo lavoro più notevole. Era convinzione del Croce, lo è del Cecchi, e del Fubini, lettore attentissimo, che al Cattaneo ha dedicato uno dei suoi saggi più maturi e fermi. Nelle Notizie, più che altrove, sono rappresentati i suoi aspetti di storico, di pensatore, di economista che formano la sua personalità. Ma accanto allo storico di alto valore e all’economista, in Cattaneo c’è lo scrittore, il prosatore peritissimo; sì che l’altra sua grandezza è fatta più grande proprio dal’essere affidata al forte scrittore.

Si doleva il Carducci di certo abbandono in cui era lasciato il Cattaneo e, confessandosi suo ammiratore antico, gli dava «mesta occasione di riso il vedere come nelle letture di prosa moderna per le scuole italiane, nessuno si degnasse di ammettere pur una sua pagina letteraria o storica». Alla disattenzione, ci hanno rimediato, più tardi, due uomini di giudizio sicuro: De Robertis e Pancrazi, includendo in una loro Antologia per le scuole le pagine, tolte dalle Notizie, sui diversi sistemi dell’agricoltura lombarda; e, tra tanti «letterati», uno «scrittore» ci stava bene davvero.
Nutrita di pensieri e di cose, la prosa di Cattaneo è delle più efficaci e schiette, continuamente alimentata da quegli inesausti afflussi di vene interne che sono i suoi ricchi interessi scientifici e morali. Non le nuoce certa compassata sostenutezza, quasi una ferma memoria di classici; né certa ortografia lievemente arcaica, con colore d’oro imbronciato.
Le Notizie sulla Lombardia erano il modello di raccolte analoghe per le altre regioni italiane, scritte con intento pratico e civile; «sicché, diceva, tra tanta varietà di condizioni naturali e civili, avessimo mena oscura nozione di ciò che siamo». E io ho sempre pensato che un lombardo di qualche intendimento che non abbia letto le Notizie, rischia di non avere intera nozione di ciò che è, e di vivere nella sua terra un poco estraneo. Gli mancherebbe sempre quel sentimento spazioso e favoloso della sua regione che, per virtù di immaginativa, questo scritto ci aiuta a recuperare, facendoci assistere al tempo in cui la nostra Lombardia — si chiamasse così o con altro nome — eruppe alla luce del vivo sole: e anch’essa fu Italia.