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CESARE ANGELINI

QUESTO BEONIO-BROCCHIERI

In C. Angelini,
Cronachette di letteratura contemporanea,
Bologna, Boni Editore, 1971, pp. 183-190.

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Vittorio Beonio-Brocchieri

Fotografia di Luisa Bianchi


Indro Montanelli che attacca i suoi incontri coi protagonisti non con la penna ma con la calamita e li tiene e ci tiene magnetizzati giù fino all’ultima riga della seconda colonna dell’elzeviro, saprebbe darci il ritratto vero di Vittorio Beonio-Brocchieri, protagonista del giornalismo quando suoi compagni di lavoro sul Corriere erano Orio Vergani, Guelfo Civinini, Arnaldo Fraccaroli, Paolo Monelli, Vittorio G. Rossi, Barzini junior, gli «inviati speciali» che nella fedeltà al mestiere tempravano le loro penne di scrittori pronti e vibrati.
Beonio ci entrò nel ’30 con un primo articolo goloso e fortunato, annunciando la scoperta dei resti del volatore Andrée; e vi restò per oltre vent’anni, inviando notizie dal mondo e dal cielo che egli, pioniere dell’aeronautica, percorreva da solo con la sua rondine d’argento.
Traverso carrellate di articoli, ricordiamo lo sperperatore d’ingegno, il dissipatore di sensibilità, di cultura, di talenti, da far pensare al monito di Corinna al giovane Pindaro: «Non si semina con la bocca del sacco, ma con la mano che cava il grano in parsimoniosa misura». A confermarci l’impressione di prodigalità e di mal consumo, uscirono in quegli anni — 1932-’34 — i due volumi Viaggio intorno al mondo (Ed. Mondadori) e Dall’uno all’altro polo (Ed. Hoepli): erogazioni di avventure ardite, di fervida fantasia, di scoperte, di battute felici. Materiale generoso, scrittura trafelata e lutulenta.
Qualcuno che gli viveva vicino, sconcertato dal modo di amministrare quel patrimonio, lo richiamò da un numero di Pan, la rivista di Ojetti [Cesare Angelini, recensione a Dall’uno all’altro polo, in Pan, 1 giugno 1934, ndr], ammonendolo con Eraclito che «la dismisura è da spegnere come l’incendio». Rispose con una divertentissima autobiografia: Pigliatemi come sono (Ed. Hoepli), che poteva essere una confessione di sincerità e poteva far pensare a certe parole dell’Ortis: «Tutta la storia di lui, mi pareva il romanzo di un pazzo». Ma della pazzia Beonio aveva fin d’allora una sua opinione; avendogli l’esperienza insegnato che se uno vuol vivere da saggio, gli basta poco per riuscirci; ma se vuol vivere da pazzo, dev’essere molto saggio, con una ricerca di equilibrio e di acrobazie maggiore di quanta ne occorre a quell’altro. Anche Festo, negli Atti, aveva detto a Paolo: «La troppa saggezza ti ha dato alla testa».
E Beonio continuò a viaggiare, a volare, a pitturare paesi e costumi, a pubblicar libri: Il mio volo traverso la Russia (Ed. Hoepli) e Da solo, traverso i cieli (Ed. Mondadori).
Nel ’40 s’accorse che lo spazio era tutto percorso, tutto descritto; la misura del viaggiatore era colma, e alto ne era il compenso; se un telegramma da Oslo gli annunciava che i norvegesi avevano battezzato un fiordo della loro terra col suo nome e cognome e se, ritornando con la mente in Groenlandia, egli rivedeva la vetta di una montagna a cui aveva dato il nome di sua madre: Carmela.
Con l’animo quietato nei ricordi, Beonio pubblicò il Marcopolo (Ed. Mondadori) che non era il solo commiato del viaggiatore dai suoi lettori, ma la coscienza di un dovere compiuto: aver visitato in lungo e in largo il pianeta sul quale trentotto anni prima era comparso a vivere: averlo girato a piedi, in bicicletta, sul bastimento, in slitta, su macchine volanti: aver visto l’uno e l’altro polo, le terre degli uomini e degli Dei.

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Il viaggiatore aveva dunque lasciato il piccolo aereo di legno e di tela ed era ridisceso nella esperienza dello studio, continuando il suo viaggio nel tempo, l’altra coordinata o costante della sua vita. Dopo i viaggi, i saggi: su Spengler, su Hobbes, e su Giusto Lipsio, e, in quattro volumi, un Trattato della storia delle dottrine politiche, percorrendo nel tempo la storia dell’umano pensiero: dalla dottrina dello Stato nella cultura greca, all’idea di popolo nella coscienza ecumenica di Roma, alla politica del Cristianesimo.
La capacità di accogliere nello spirito tutti gli aspetti della creazione e della vita (rade volte ho incontrato un’anima più leonardesca, nel senso dell’universale), lo ha portato ad occuparsi di metapsichica e di magia (Camminare sul fuoco; Nuna; ed. Longanesi) con la voglia di riportare i fatti misteriosi e il loro brivido in seno alla saggezza della natura. Non lo diremo l’aspetto più interessante né più vero della sua attività di scrittore, ma piuttosto espressione di quell’insaziata sete di conoscenza che lo spinge a frugare in ogni settore della vita e dello spirito. Sicché, alla fine, se qualcuno ci chiedesse qual è il mondo di questo nostro scrittore, risponderemmo: il mondo.

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Ora, il nuovissimo libro Europa e oltre (Rosenberg e Sellier, Torino) presentato da Salvador de Madariaga che colloca l’autore «tra gli scrittori la cui vocazione li indica all’avanguardia della cultura della nostra epoca» vuol ricordare i quarant’anni del suo insegnamento universitario nella Facoltà di scienze politiche, cioè il suo arrivo a Pavia nel 1926. L’anno del nostro primo incontro, avvenuto sotto i portici del Collegio Borromeo che allora ospitava il poeta russo Venceslao Ivanov, visitato da Benedetto Croce.
Rivedo l’allegro giovanotto, più sui venti che sui trenta, con sotto l’ascella il Tramonto dell’Occidente di Osvaldo Spengler e la testa piena di poeti se, all’occasione, citava Pindaro o Lucrezio a memoria, con la precisione di un testo di Lipsia. I suoi impeti disordinati, i suoi scatti, il parlare precipitoso e colorito lo rivelarono subito generoso, stravagante, imprevedibile, e perfino un po’ scomodo alla gente troppo per bene. Ingegno fertile e pronto, improvvisava disegni che poi venivano accolti alla Biennale di Venezia. A Milano, frequentava un rabbino per imparare l’ebraico, e il Prefetto dell’Ambrosiana per l’arabo.
Fin dai primi tempi del suo insegnamento, Beonio sentì il bisogno di allargare l’area degli studi e dei loro strumenti. Gli stessi viaggi che, come aviatore e pubblicista, lo portavano a contatto di continenti e civiltà diverse, gli chiarivano la persuasione di superare quello che lui stesso definì «il vizio eurocentrico». Lo studioso, in particolare il politico, che s’è documentato di Platone e Gide, da Virgilio a Shakespeare, da Dante a Goethe, conosce solo l’alfabeto di casa; in tempi in cui l’uomo va al di là della terra, è necessario che l’europeo vada oltre l’Europa, oltre l’occidente, verso l’oriente sulle cui soglie ci hanno portato le generazioni precedenti.
Con queste persuasioni fondò presso la sua Facoltà un Centro di studi per i popoli extraeuropei, con corsi pratici di lingue fuori dell’area greco-latina e anglogermanica, con seminari, convegni, pubblicazioni, esami, mostrando a tanti giovani le nuove vie del pensiero. Sicché, se il titolo del nuovo libro — Europa e oltre — era già il motto sottinteso, o ben palese, del suo insegnamento, il libro è ora più chiaramente la proposta d’un allargamento degli strumenti di lavoro per avvicinarsi alle sorgenti di quelle civiltà antichissime e quei popoli che si risvegliano generosi, potenti e perfino pericolosi, riprendendo la vocazione millenaria d’una cultura che non possiamo ignorare.

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Alla prima parte del libro dove le pagine corrono parallele all’attività della scuola, ne segue una seconda di saggi letterari su otto o dieci personaggi che hanno espresso i valori perenni dell’umanesimo occidentale, e dove meglio riappare lo scrittore, e il suo studio e la sua esperienza della parola. Naturalmente Beonio sceglie per le sue letture gli autorì più congeniali, «per il genio lor robusto». L’abbiamo detto con parole dell’Alfieri che qui è presente come traduttore di Sallustio, quando cioè, dismesso il furore del vate, viene avanti come un uomo quotidiano e con una vitalità di linguaggio che lo avvicina ai moderni. Interessante quello che dice della posizione storica di Kipling, accostandosi a scritti di Serra e di Cecchi che mostra di conoscere bene. Più lungo discorso vorrebbero le pagine commosse dedicate a Verdi interprete del Risorgimento, la ragione per la quale è necessariamente universale. O quelle che dedica a Wagner, e il suo senso romantico e le sue dimensioni spaziali.
Interpretazioni, spesso discutibili che magari non accetteremo, per certa sua tendenza al paradosso alla battuta; ma pagine sfolgoranti di novità e d’ingegno e cultura.
E c’è un capitolo — l’ultimo — che forse non lega molto col volume ma a noi è particolarmente caro: Quel ramo del lago di Como... La magica intonazione riporta l’autore dal mondo alla sua terra natale che è Lodi; e nella commozione del ritorno, che pare una scoperta, la vede e canta nella stupenda liturgia delle sue ore e delle sue stagioni.

[1967]