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CESARE ANGELINI

BERNASCONI A CANTÙ

In C. Angelini, Quattro lombardi (e la Brianza),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1961, pp. 35-44.

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Ugo Bernasconi e Angelini,
in Casa Bernasconi a Cantù fine anni ’50

Fotografia di Luisa Bianchi


A ottantatré anni suonati, gli è rimasta tanta persona quanto basta a portare in giro la meraviglia dell’anima. Vederlo nella sua casa alta di Cantù, fievole e minuto e sempre in moto, dentro il camice troppo largo e la barbiccia dove trascolora un ricordo di antichissimo biondo, Bernasconi ha l’aria di un monaco consumato sui libri che insegnano la saggezza del vivere e dell’invecchiare con grazia. Fin che non compare la prima figliuola, Primavera, e poi la seconda, Eletta, e la terza, Erica, e la quarta, Bravissima, e la quinta, Fede; e poi la moglie, la signora Rosa; le donne che aiutano a creare la particolare atmosfera della casa, come dice «il pensiero» che Papini scrisse sull’album il 25 gennaio del ’33, quando vi fu ospite insieme con Ardengo Soffici. E quasi tutti «i pensieri» dell’album, firmati da Jahier o da Linati, da Bucci o da Carrà, finiscono in questa cordiale esaltazione. Trascrivo quello di un illustre malalingua milanese: «Quanto insegnamento mi viene da questa dolce casa di Cantù, visitata da spiriti magni, da ospiti illustri. Straordinaria casa, dove babbo Bernasconi mi insegna l’umiltà — benché ci sia passato Francesco Pastonchi — e le sue cinque figliuole l’allegria — benché ci sia passato Delio Tessa. Le do lode, le dico grazie».
Con voce mirabilmente giovane, Bernasconi parla dei suoi anni lontani, vissuti in una geografia un po’ agitata: la nascita a Buenos Aires, gli studi di lettere a Milano, quelli di matematica a Pavia, il viaggio in Francia dove conobbe Carrière, che gli fu maestro di stile e di vita; e poi i nuovi viaggi in Spagna, in Svezia, in Norvegia, guardando e dipingendo il mondo. A Cantù, si ritirò nel 1919 per recuperare la salute dopo una malattia contratta in guerra, e ci vive e lavora da ormai quarant’anni. Ma, se aria di Brianza circola nell’opera di Bernasconi, è in quella del pittore, non in quella dello scrittore; perché il solo libro (in principio era scrittore) fu scritto a Parigi nel 1902, e pubblicato a Milano nel 1914, in piena Voce col titolo lievemente umoristico di Uomini e altri animali.

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Quando uscì, trovò la miglior critica attenta. Renato Serra, che in quei giorni scriveva le Lettere, non s’accorse di lui. Più tardi, confessò di avere dei torti verso i lombardi ma non vi rimediò molto, almeno per quanto riguarda Bernasconi; ché, avuto in mano il volume, lo guardò intonso, e non gli parve gran cosa: ci trovò «poca felicità». Intendeva felicità espressiva, ch’egli trovava magari in D’Annunzio dov’è più oro e miele; mentre in Bernasconi lo stile è un po’ trasandato e illuministicamente più intento alle cose, secondo le lezioni d’altri lombardi, e il Beccaria e i Verri.
Nel 1920, quando Papini e Pancrazi pubblicarono Poeti d’oggi (oramai poeti era sinonimo di scrittori, scrittori nuovi, come si diceva, e gli effetti della poesia erano risolti nella prosa), Bernasconi vi ebbe il suo posto onorato. Le pagine che lo rappresentavano, naturalmente eran tolte da quell’unico libro, al quale Bernasconi s’era fermato. O, se altro aveva scritto, erano pagine di gusto ricreativo o di mestiere, come i Pensieri ai pittori, o le traduzioni dai moralisti francesi, Pascal, Montaigne, rivelando l’aspetto aforistico-didattico del suo ricco temperamento. Sicché, nel 1926, quando Mondadori ristampò il volume, Pancrazi che non perdeva nessuna bella occasione, potè ancora parlare del «modesto scrittore di un libro solo».
Abbiamo nominato il 1926: tempo del nostro incontro con Bernasconi al Convegno, il Circolo che Enzo Ferrieri aveva aperto in via Borgospesso nel palazzo Gallarati-Scotti, dove conveniva il meglio delle lettere e della cultura d’allora. Da Cantù, dove viveva solitario, giungeva di rado Ugo Bernasconi, timido e biondissimo e come tinto da un lume interiore. Pure da Cantù, scendeva il Pastonchi per qualche dizione di poeti, o a parlarci dei Versetti, che andava maturando, e meno ritengono della virtù sonora degli altri suoi carmi. Non abbiamo ancora nominato Carlo Linati, che veniva da Rebbio di Camerlata, signorile e bonario, dandoci l’impressione che in quei giorni la poesia fosse un bel vento che ci arrivava dalle ville e dalle strade di Brianza.
Linati fu vera colonna della rivista omonima, il Convegno, che tra la Ronda appena morta (1922) e la Fiera letteraria appena nata (1926), per un decennio accolse con un suo criterio antologico il meglio dei nostri scrittori. Dal Convegno Bernasconi ci portava poi a Bottega di poesia ch’era lì a due passi, in via Montenapoleone, dove esponeva certi «studi in grigio», paesaggi e ritratti. Con la penna o col pennello, questa era la sua vocazione: far ritratti. Perché, cos’erano, alla fine, quei suoi Uomini e altri animali?

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Qualcuno li disse genericamente racconti, novelle. In verità, sono qualcosa di meno della novella, perché vi manca l’intreccio; e qualcosa di più perché c’è sempre l’elemento autobiografico che vale assai più della vicenda inventata. Si tratta di figure incontrate in treno, in alberghi, in stazioni termali: ritratti di viaggio. Come La servetta delle monache, trovata in treno sulla linea di Bretagna verso Parigi: ha finita la vacanza al paese e torna al convento. È tutta intenta a definirsi qual è, servetta claustrale: rincantucciata, occhi bassi sul libro di preghiere, sospettosa, scontrosa. Ma, sollecitata da una donnaccia e da un soldato, diventa di balzo la più sguaiata della compagnia; come se una forza a lungo compressa, di botto riprendesse il sopravvento. Come la descrive, come insiste a descriverla, rivela un’esperienza che appartiene a un’altra tecnica, quella della pittura. E, dietro il pittore, che ha trovato un’agevole modella, c’è lo psicologo che esplora le fondamentali attitudini dell’istinto e la fisionomia che esso dà all’uomo e agli altri animali.
Il Bernasconi non ama blandimenti verbali o particolari decorativi, pago di trovare in un uomo la rivelazione d’una ricchezza interiore. Che cerca e trova anche negli «altri animali». In Umanella, per esempio, la gallina in cui si sveglia improvviso l’istinto d’avere una sua covata; fa il verso, sbriciola minuzzoli di cibo ai pulcini non suoi, li richiama, li difende, li prende sotto l’ala. L’altra, la chioccia vera, lascia fare, compiacente. Nella misura breve del poemetto in prosa e nella qualità del linguaggio, la pagina si direbbe linatiana, dei Doni della terra o, meglio, degli Amori erranti, con in meno certa sapienza stilistica, e in più una umanità che non sempre in Linati c’è. O è il ritratto di Grane, il vecchio cavallo, solo, magro e inattivo in ogni campo romito. «Una rassegnazione immutabile sembrava essere il riassunto di quella esistenza antica — per quale mai somma di esperienze dolorose, giuntavi? Io avrei voluto accarezzargli il collo, ma non osavo, quasi temendo di indurvi l’ultimo crollo. Gli porsi una pallottola di zucchero, ma non la prese; povero rozzon di fatica, ignaro forse, per tutta la sua vita, d’altro nutrimento che di arida paglia e colpi di staffile» . Il ritratto continua e chiude con un particolare crudamente realistico e di grandiosità portiana.

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Di piglio anche più duro e corposo sono le pagine dello scultore, che mattamente sbozza figure allegoriche sugli scogli del mare, quasi sullo scheletro stesso della Terra, «fiducioso in una sapienza sempre viva e vigile, che d’ogni cosa, anche delle procelle, si vale per compiere un’opera di perfezione». O l’altre pagine sulla pittrice, da cui paion cavati, più tardi, i Pensieri ai pittori: («L’importante è di simpatizzare con l’essere che si osserva, sia il mare, o la città, albero o persona, una bestia o una nuvola, o magari l’inarcatura d’un ponte o il colore di un tetto, e che solo in un breve attimo d’amore si discoprono molte più cose che non in molti anni di studio»).
Qualcuno ha creduto di collocare Bernasconi in una linea di tradizione lombarda. Ma la tradizione non è un allineamento di nomi corregionali, e poi è cosa ereditata, col peso e il limite di ogni eredità; mentre qui sono fermentazioni, novità e un vibramento interiore che non lo fa uguale a nessuno. Tuttavia, per certo fondo lessicale tra l’aulico e il dialettale (àlbulo, novezza, arrapinarsi, frisare, ostendere, ecc.) o per il modo di atteggiare l’aggettivo (ripugnoso, sprezzoso, ribrezzevole, torrentuoso, ecc.) vien fatto di richiamare il nome del Linati o magari quello di Lucini. O, piuttosto, di dire che tutt’e tre hanno respirato nelle pagine di un altro signore lombardo: quel Carlo Dossi, che arrivò in tempo ad avere come lettore consenziente lo stesso Alessandro Manzoni.
Uomo d’un libro solo (il «pesce d’oro» che di recente gli ha dedicato Scheiwiller ce n’ha rinfrescato il ricordo), Bernasconi come scrittore non ha avuto sviluppi. La sua evoluzione l’ha avuta nell’altra direzione, quella della pittura; dove, attraverso esperienze impressionistiche, postimpressionistiche e luministiche, nella sua solitudine schiva ha percorso il cammino dei migliori, raggiungendo una suggestiva atmosfera tonale di densa poesia. E chi va a Cantù, oggi cerca naturalmente il pittore; il cui nome — dice Ardengo Sofffici — nelle cronache d’arte s’allinea con quelli dei maestri più nobili e alti.