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CESARE ANGELINI

SVEGLIARSI A TORINO

In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1992, pp. 133-138.

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Torino


La vecchia, buona capitale. E qui mettete pure il re di Sardegna, il destino dinastico valligiano e montanaro, i ricordi albertini, Camillo Benso di Cavour, il Risorgimento e «il tempo sacro del risveglio». Torino sta con naturalezza di fronte a questa sua storia, avvolta in un’atmosfera primottocento che nemmeno la presenza della Fiat riesce a turbare.
Ma svegliarsi a Torino un mattino d’aprile e prendere il caffè in via Po, è sentirsi ancora baciati dalla luce sgorgata da un cielo trovadorico e felice; come al tempo di Rambaldo di Vaqueiras e gli altri rimatori calati di Provenza col loro tesoro di sillabe e di rime.
Salendo in collina, vedi Torino nascere con gentilissimo stupore in un punto di convegno della geografia d’Italia, e i temi musicali distribuiti lungo la penisola, vi si ripercuotono con battute essenziali. Cosa giusta, se la storia del Piemonte è un po’ la storia d’Italia, e al Piemonte guardiamo tutti con riconoscenza. I colli di Monferrato e le Langhe non vi giungono come un’eco, un gaio ricordo di terra romagnola o toscana? Ma soprattutto vi giunge la severità della pianura interminabile, ultimo richiamo occidentale della forza lombarda che sa patire il ribrezzo gelato delle nebbie e ardere ai soli feroci d’agosto. Severità lavorativa e puritana che s’imprime nell’onestà matematica delle sue piazze care al traffico, nella disciplina delle sue strade larghe e regie, imitando il regale fluire del Po. Torino nasce così; da una norma, da una sagoma logica di pensiero in cui fiorisce il suo ritmo; estremo pudore della poesia che si nasconde dietro la maestà d’un regolamento edilizio.

Ma lo spirito di geometria in cui la città fu concepita sull’antichissimo reticolato romano, — Augusta Taurinorum — si scioglie nello spirito di finezza dei colli che l’inghirlandano, con linee dolci sul cielo e riposo di ilari nascondigli: il monte dei Cappuccini col viottolo e la chiesa del Convento, rallegratura sospesa tra l’acqua e il cielo; Superga che continua la funzione dei nostri colli, sentita fin dai tempi di Romolo: cuscini alti e verdi per l’ultimo riposo dei re; i castelli di Stupinigi e Moncalieri e Chieri che riecheggiano gli innocenti sospiri di marchese patite, di dames du temps jadis; e, ad occidente, Rivoli, col suo fortilizio assunto in cielo a guardare la strada del Moncenisio e i confini della patria. L’uno e l’altro e tutti non sanno dimenticare d’essere stati i dintorni d’una culla regale e d’una capitale, e mentre la città cede agli incitamenti dell’età meccanica ed economica, custodiscono le remote memorie, salvandole in una atmosfera di evocazione affettuosa.
Più lontane, le Alpi; eternità che non si inchina, grandezza proibita fuor che alle aquile che vi passeggiano sopra regalmente, per passatempo. E fu bella magia di poeta quando il Carducci contemplando la gran cerchia, l’ha sentita orchestralmente come un «festante coro». (Però, anche il piccolo Guido, una volta tanto, che pennellata eretta!


Da Palazzo Madama al Valentino
ardono l’Alpi tra le nubi accese.
)

Al miracolo del Monviso che la vigila, la città par rispondere con la mole antonelliana che ripete in modo temerario il senso gotico delle Alpi con le quali Torino s’imparenta e si salda lanciando le sue vie veloci verso le valli e i valichi allucinati di plenilunii e rarefatti silenzi. Torino sente Susa, e Susa respira sul passo delle Chiuse, dove il diacono Martino e Carlo dalla barba fiorita incontrano Desiderio, sconfitto. Vecchie montagne, che tra le rughe nascondono paesi taciturni, dove uniche notizie sono quelle portate dall’obbediente ripetersi delle stagioni dentro lo spazio puro, e dal vento e le maravigliose nevi.

Torino, custode di miracoli storici e d’arte; grande fra tutti, la fotografia di Dio impressa sul lenzuolo; la Consolata col suo trionfante barocco; e il cavallo volante di Valentino che salta attraverso i secoli.
Città provinciale e parigina, città della folla e dei principi, dei caffè e della reggia che vi porge l’orecchio per raccogliervi i commenti pettegoli («Qu’est qu’on dit au Café Fiorio?»), in quel dialetto gianduiotto che conserva cadenze del provenzale parlato dai trovadori alle corti di Savoia e il Monferrato. Città di Gioberti e D’Azeglio, di Baretti, di Balbo, e, con un senso di cose che diminuiscono, di Brofferio e Bersezio, di Nigra e Calandra, di Faldella, di Cena e Sibilla e la Prosperi. Città di Guido... («è questa l’ora antica torinese, è questa l’ora vera di Torino») di Cesare Pavese e la bella estate sulla collina, nel vago della luna. Nobile letteratura vicino alla quale anche noi stiamo con naturalezza e umiltà.