CESARE ANGELINI DISCORSO COL SEPOLTORE
In C. Angelini, I doni del Signore,Milano, Bignami, 1970, pp. 61-62.
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Per quella fossa che un giorno mi scaverai con sudore, adattandola alla mia breve bara squadrata; per la fatica che farai a calarvela dentro con la doppia corda foggiata uso tiranti e che poi tirerai su perché dovrà servire per altri; per quelle palate di terra che vi getterai sopra (e i tonfi sordi parranno colpi dati sulle porte dell’al di là); per il tumulo che su vi uguaglierai con la vanga logora a forza di seppellire dei morti; per quella buona e un po’ triste compagnia che mi farai anche dopo che i cari parenti e gli amici saranno tornati alla dolcezza della casa illuminata dalla solita lampada e riscaldata dal solito focolare, o sepoltore, sii ringraziato fin d’ora.
Il lettore non si faccia venire la pelle d’oca innanzi a questa apparizione cavata dal libro delle paure. Col tempo che avaramente stringe e la morte vien dietro a gran giornate, bisogna affrettarsi a ringraziare questo amico delle ultime ore. Non è egli il custode di un campo dove anche il nullatenente possiede due spanne di terra per il diritto che gli dà la morte? Giunto al cimitero, non è a lui che tocca fare gli onori di casa? Viene a riceverlo su la soglia, aiuta a calarlo dalle spalle dei portantini e a deporlo sul catafalco sul quale tanti altri sono passati; e, dopo l’ultima benedizione, la bara passa in sua proprietà. Tragica proprietà, ch’egli riceve dalla stessa mano della morte, pronta a cedergli la sua preda che egli nasconde sottoterra; e non è raro vedere di furto, una lagrima rigargli la faccia glabra, poiché non sempre l’abitudine fa duro il cuore. Poi richiude il cancello, e ne custodisce le chiavi. (Le chiavi del cimitero!).
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Terribili quei beccamorti che scavano e discorrono fra il lucido ghigno dei crani dissepolti, nel quinto dell’Amleto. Dicono che nessuno costruisce case durevoli come le loro che durano fino al dì del giudizio. Ma la vera tradizione del sepoltore, amo cercarla altrove: fra quelli che hanno sentita l’istituzione come un’opera di misericordia. Tobia, l’eroico sepoltore che, pur di ritirare i corpi dei morti, anche dei nemici uccisi, lasciò che lo esiliassero e gli confiscassero i beni e ogni cosa, fuor che la moglie e il figliolo. Nella sua semplice vita è commovente il fatto che, proprio il giorno che era tornato dall’esilio, mentre stava per mangiare un boccone che Anna, sua moglie, gli aveva preparato, saputo dal figlio che un uomo della sua terra giaceva strangolato su la piazza, lascia il cibo e corre a prenderlo, se lo porta a casa fino al tramonto del sole, quando la legge ne permetteva la sepoltura.
E sapete ch’egli perse la vista mentre attendeva al suo pietoso lavoro di seppellitore. Fu la notte che, avendone seppelliti un gran numero, s’era adagiato a riposare lungo un muro, supino e con gli occhi aperti, lontano dal pensiero che nei forami del muro vi fossero passerotti screanzati. Uno dei quali gli fece quel brutto servizio che lo ridusse a cecità completa. Ma egli ebbe l’elogio dell’angelo: «Quando tu seppellivi i morti, io ero con te: prendevo la tua buona azione e la portavo al Signore».
Non meno bella è la figura di Diogene, così vivo in Fabiola! Apparteneva alla corporazione dei fossori; ne era anzi il capo. Dice il libro che assomigliava a uno che fosse sempre vissuto coi morti, felice della loro compagnia; e poiché que’ suoi morti eran tutti corpi di Martiri, penso ch’egli avesse mani consacrate. A Roma, nel cimitero di Domitilla, c’è il suo cubicolo e, dentro l’arcosolio, il buon sepoltore è raffigurato con in mano gli arnesi della sua professione. Commove la sobria iscrizione che dice piamente il dono ricambiatogli dai fratelli: «Diogenes fossor in pace depositus Oct. Kal. Octobr.». Il sepoltore consepolto.
Né in quel mondo di povera gente che esauriscono tutte l’opere di misericordia spirituale e corporale, che è il romanzo del Manzoni, poteva mancare il sepoltore: Paolin de’ morti. Figura minore, di ultimo piano, accanto a tante altre cospicue: non la vediamo nemmeno, perché non si presenta netta alla ribalta del dramma; la si intravvede attraverso le parole che dice l’Amico del capo 33 al povero Renzo, nel silenzio della sera, al barlume, tra i rami e le fronde, vicino alla casa vuota, nella tragica solitudine della morte: «T’avevo preso per Paolin de’ morti che vien sempre a tormentarmi perché vada a sotterrare». La figura è appena accennata, ma è viva per sempre; e l’opera di misericordia di quest’uomo che sostiene tutta una pestilenza, splende nel tragico suono di quel nome.
Tobia, Diogene, Paolin de’ morti: i tre sepoltori che bisognava ricordare come i rappresentati di una classe che ha ufficio pietoso e grande: custodire i corpi in vista dell’anima. Perché verrà un giorno che l’anima riprenderà il corpo che fu suo. Quel giorno il Signore manderà un angelo a ogni tomba a richiamare con squilli di tromba i corpi a una vita novella. E mi è caro pensare che, guida e compagno dell’angelo, sarà il buon sepoltore, il quale sa dove li ha puntualmente interrati e salvati per l’eternità.
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