Alla Porta Aurea, il forestiero si ferma abbagliato dal nome lucente, e sta un poco in ascolto come chi pone l’orecchio a una conchiglia dentro la quale romba un murmure sepolto. È la storia di Ravenna capitale di tre imperi che vi risuonano dentro: romani e barbari, Cesare, Onorio, la bellissima Placidia, Odoacre e Teodorico, Giustiniano.
Lì, in sontuosissime reggie, in ministeri sfolgoranti di ori e alabastri, si decidevano i destini dei popoli e delle civiltà. Ravenna è l’ultima luce del giorno che si spegne sull’impero; cerca di ritardarne la sparizione in un crepuscolo lento, ribellante, ma la notte scende fatalmente. La romperanno le luci immense dei suoi santi e filosofi: Apollinare, Boezio, Pier Grisologo, Pier Damiani, nomi da terzine dantesche come, del resto, tutta quella rutilante storia, si direbbe vissuta per alimentare canti di una Divina Commedia.
Ravenna, si sa, è tutta un palinsesto; e si potrebbe parlare di una Ravenna sepolta. Uno splendido squallore invade le vie taciturne, creato e aumentato dalle frequenti basiliche, mausolei, battisteri, urne; antichissime case di Dio o case dei morti. Come tutte le costruzioni romaniche, Sant’Apollinare dentro le mura, San Vitale, Galla Placidia, Sant’Apollinare in Classe, all’esterno paion povere e rozze; se non le rivelasse subito il ritmo di un’architettura miracolosa, dominata da torri rotonde, simili a trombe voltate verso il cielo a svegliare le aurore e i giorni dimenticati degli esarchi. Poi, spingi una porta, e — volte, pareti, cupole — è tutto un frusciare di luci, un gaudio di splendori incorrotti; è la magnificenza dei mosaici che compongono apparizioni di vergini, processioni di martiri, ritratti di imperatori e imperatrici, simboli cristiani di colombe che si dissetano al fonte, di agnelli che pascolano al prato. Così veramente è la vivezza dei colori — oro su rosso, su verde — che si direbbero bellezze di ardore barbarico; se non fossero, viceversa, frutto di civiltà raffinatissima che ha anticipate e consumate esperienze di tecniche moderne.
Mi immagino cosa devon essere di notte, nel vago della luna che vi entra per finestrette d’alabastro, le processioni di vergini e di martiri che animano le pareti di Sant’Apollinare nuovo, nel fulgore dei broccati preziosi, sul prato fiorito. Vanno o stanno? Sono processioni eterne. E penso cosa diventa la conca absidale di Sant’Apollinare in Classe, maravigliosamente ricca di figure e di simboli, al mattino quando vi giunge il sole, nascendo dietro la pineta di Chiassi.
Dai mosaici l’occhio scende alle colonne e al loro galoppo sospeso nello spazio; marmo del Pentelico e dell’Imetto, con capitelli corinzi, e foglie d’acanto trascolorendo creano nidi d’ombra e di luce. Miracolo d’architettura e pittura che, a guardarla e riguardarla, l’anima si colma.
Si è nominato Dante, il nume del luogo. Il sepolcreto che ne custodisce le ossa — Dantis ossa — è bene il cuore di Ravenna, e d’Italia. A Firenze non aveva scelto di nascerci; a Ravenna ha scelto di morirci. Consapevole di quanto sia difficile agli esuli trovare degli amici, da qui rispose all’amico fiorentino: «A Fiorenza io giammai tornerò. E che per questo? Mi mancherà forse un luogo da cui speculare il corso del sole e delle stelle?» E tra i grandi ricordi imperiali e cristiani, continuò a guardare il cielo e le stelle e la marina, accogliendone suggerimenti per la seconda Cantica e la terza. La pineta gli diede la immagine della «divina foresta spessa e viva», e le visioni e le processioni contemplate nelle basiliche, gli diedero movimenti e colori per le vesti degli Angeli del Purgatorio e la pompa delle processioni del Paradiso.
Nel tempietto neoclassico arde perpetuamente la lampada rifornita con l’olio dell’ampolla offerta dalle città irredente; e sull’ora di notte «intenerisce il cuore» il suono della campana donata dai Comuni d’Italia per ricordare il morire del giorno cantato in terzine d’una accoratezza universalmente umana. A quel suono, Ravenna entra nella luce di un’azione mistica; e, quasi in una nuova «valletta dei principi», Onorio, Galla Placidia, Odoacre, Teodorico, Giustiniano cantano insieme la preghiera di Compieta, nella lingua di Roma: — Te lucis ante terminum...
Ravenna ha un altro modo di tener vivo l’amore al Poeta: la lettura del Poema, fatta nella «Sala di Dante» presso la Biblioteca Classense. A uno a uno giungono i letterati d’Italia a leggervi i mirabili canti; e anch’essa è un’azione liturgica, sacra. Manara Valgimigli, che è il padrone di casa, dimenticando un poco i suoi greci, ne regola il tempo. Poi, raccoglie amici e amiche a far festa intorno alla tavola di una trattoria familiare. Ed era bello l’altra sera, dopo una di queste letture, vederlo con che esperienza manovrava cosce di beccaccine pruriginose e voltava via bicchieri di albana. Schietto romagnolo di Russi, Valgimigli ama la buona tavola e sa che la bella conversazione, sostituendo il canto conviviale dei suoi greci, fa perfetto il piacere della mensa e «aggiunge un filo alla trama della vita».