CESARE ANGELINI CONOSCERE LA PROVINCIA
In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1992, pp. 11-20.
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Provincia non nel senso crepuscolare, attardato, ma come misura etnica, geografica, amministrativa, coi suoi circondari e mandamenti che, in tempi di europeismi e di ecumenismi politici, resta sempre una realtà positiva; e, ancorandoci a un cantuccio preciso del mondo, ci aiuta a non smarrire il sentimento di noi stessi, la nostra misura d’uomini.
Poniamo, questa mia provincia, che sulla carta geografica della Lombardia presenta la forma stravagante d’un triangolo con la base in su e il pizzo in giù; con una capitale che non invecchia perché antica (antica capitale di regni) e un contado così prosperoso di vita e di opere tutte al vento e al sole, che ogni giorno qualcuno rinnova il gusto d’esserci nato contadino. Ma smorziamo ogni tentazione di lirismo, e parliamo con calma di questa provincia che, fatta di sindaci e parroci e d’un mezzo milione di anime, è naturalmente quella di Pavia.
La quale, come la Gallia di Cesare, divisa est in partes tres. Quarum unam..., anzi due — il Pavese propriamente detto e la Lomellina — sono le parti soprane del triangolo; la terza o parte sottana, è l’Oltrepò. Maravigliosa provincia che, al nord, scappa verso i fiumi — il Ticino e il Po — con la sua pianura di praterie, di boschi, di marcite, di risaie e rogge e nebbie basse; e, al sud, sale coi festanti filari dei suoi vigneti verso i dorsi dell’Appennino.
Dicevo del Pavese propriamente detto, meglio conosciuto come la Bassa, incavernata nella Padania a cui dà aria di favola la frequente citazione dei bollettini meteorologici: «Banchi di nebbia in Val Padana».
Al capoluogo, Pavia, basti aver accennato. Descriverlo, il discorso sarebbe trattenuto nella soggezione delle Guide vecchie e nuove, a cui ben poco c’è da aggiungere, o nulla; fuorché l’ammirazione per la città regale che intreccia il superbo capriccio delle sue torri medievali alla sapienza delle basiliche e alla maestà bonaria del suo fiume nel momento più bello.
Ammirazione che gli hanno prodigato con diverso temperamento ma con uguale amore letterati degli ultimi tempi: Ada Negri, Piovene, Antonicelli, Montanelli, il quale, se l’ha chiamata «la ruvida Pavia» è perché l’ha vista, com’è, al centro di un massiccio reame di contadini e di un fiorente deposito di opere agresti, antiche e nuove.
Il discorso si fa più sciolto liberandosi negli itinerari in provincia, sulle belle strade che partono a raggiera dalla città: strada di Lodi, strada di Cremona, d’Abbiategrasso, la vigentina, la romea..., galoppate da file di gelsi e di pioppi, accompagnate da rogge incontro a terre e a terricciole che via via si presentano non molto diverse l’una dall’altra, coi loro campanili e le loro povere storie di nascite e di morti, di stagioni, di fienagioni, di raccolti, di sagre e di mercati.
Pure, ognuna ha una propria fisionomia, ricostruita attraverso le sue origini prime e le vicende particolari di uomini e di casi che vi hanno operato. Basta fare qualche nome per svegliare echi di vicende storiche o avventurose. Corteolona, o l’immagine d’una terra fluviale che, già villa romana, ha poi avuto un suo conto nella storia dei longobardi e dei loro re che, sedendo in Pavia, ne avevano fatto la dimora rurale. Binasco, o il castello la cui fama esce dalle cronache municipali per entrare in quelle nazionali coi luttuosi casi di Beatrice di Tenda. E Mirabello è pur noto lippis et tonsoribus perché lì culminò la battaglia di Pavia nel 1525, con la sconfitta di Francesco I e la morte del Signor De la Palice e la sua verità che un’ora prima di morire era ancor vivo. Un’età di autentico splendore ebbe coi Visconti il centro di Belgioioso, che poi nel primo Ottocento ospitò il Foscolo, il Verri; presenze che non si cancellano più, gli danno un blasone, stampato nell’aria.
E, grattando alle origini, anche dei centri minori sepolti nella loro solitudine si scopre che ognuno di essi custodisce nelle vacchette dell’archivio comunale o parrocchiale, la notizia utile per la ricostruzione della sua biografia. Mettiamo, Albuzzano, il mio paese natale (ne accenna il Cattaneo nella Notizia intorno alle cose di Lombardia) profonda le sue radici nell’età romana della decadenza. E par sempre una memoria poetica la notizia che il paese di Bereguardo sul Ticino ospitò nel suo castello un pittorone come Filippo Brunelleschi, chiamatovi da Firenze per certi restauri. O Torre d’Isola, dove nel primo Ottocento la marchesa Chiara Botta Adorno teneva nella sua villa un salotto scientifico-letterario al quale convenivano, a piedi, da Pavia, i più illustri professori dell’Università, i successori del Volta, del Mascheroni. Un urbanesimo alla rovescia: cultura e scienza emigrando dalla città verso la campagna, per ritrovarvi una nuova lealtà tra le cose e la gente che vive nella grandezza quotidiana del lavoro dei campi.
Ma queste sono notizie, come dire? auliche, che appartengono alle pergamene e agli archivi.
La vera storia di questi nostri paesi, è quella feriale, che fanno essi stessi con la loro economia rurale, attraverso generazioni di lavoratori — fittavoli, piccoli proprietari, campari, salariati, braccianti — nei sette giorni che si rinnovano lungo l’arco del sole; è nel loro spazio aperto di vicende di seminagioni, di raccolti, di stalle mugghianti nella calma saggezza degli inesauribili campi; di rogge che li legano tra loro, sì che tutti si lavano la faccia nelle medesime acque, quelle stesse che un tempo muovevano ruote di molini, a preparare la molenda per la nostra polenta quotidiana. Queste sono le storie dei paesi della Bassa pavese; e i proverbi che i vecchi tramandano come parabole d’un Vangelo contadino: Dal cielo viene l’acqua, dai prati viene l’erba, ecc. O quell’altro: La roba che è nei campi è di Dio e dei Santi. Proverbi che hanno radici nella stessa terra e una logica che è scritta in cielo.
Non meno allegra e profittevole, la peregrinatio in Laumellum o quattro passi in Lomellina, per le sue strade larghe, beatamente aperte ai venti e al sole e al traffico dell’opulenta pianura, e lungo le quali si stendono a perdivista, secondo le stagioni, praterie o risaie o campi di grano, a ricordarci che un tempo la Lomellina era considerata un granaio d’Italia.
Si snodano, puliti e prosperosi, i bei paesi legati tra loro da suggestioni storiche: Lomello, Tromello, già sedi di corti regie e custodi di monumenti romanici; lo grosse borgate di Sannazzaro e Pieve del Cairo che, pur conseguendo un alto sviluppo economico-industriale, conservano la loro aria rurale e si concedono il piacere antico di contemplare il sole dall’alba al tramonto. O i centri maggiori: Vigevano, memore di Ludovico il Moro e dei suoi splendori ducali; Mortara, la Silvabella che mutò il lieto nome nel triste dopo la strage dei Longobardi da parte di Carlo Magno.
In tempo non lontano di generale disamore per la terra, alcune zone dell’alta Lomellina rimasero pressoché deserte, e i vecchi cascinali la cui densa popolazione era stata la vita e la forza dell’economia curtense, soffersero mancanza di strumenti e di servigi. Ma la buona terra, come a dire il buon sangue, non mente; e già se n’è visto il ritorno e il recupero. Perché la campagna, chi ci è nato può talvolta dimenticarla ma perderla, no.
L’Oltrepò è la collina: o la vigna o la vite dove l’aria ha il dolce dell’uva o del mosto.
Per i pavesi d’una certa età che mantengono sano il gusto dell’Ottocento, l’Oltrepò è una terra ancora un poco fiabesca, un tempo di vendemmia, di operosa allegria. A nominarli, i suoi primi paesi che sono Broni, Stradella, Casteggio, ci vengono familiarmente incontro con le immagini settembrine di carri con bigonce piene d’uve violette, trascinati da buoi. Fornivano l’uva a tutto il Pavese, quando il pigiar l’uva apparteneva ai buoni costumi.
Come paesaggio, l’Oltrepò è tutto un movimentato spiegarsi di valli e colline che, partendo da Rovescala, Canneto, Montù, Santa Giuletta, La Versa, vanno via via elevandosi fino alla vera montagna dell’arco appenninico, al Brallo, al Pénice. Nell’aria netta dei colli, si profila la serie dei castelli — da Montalto a Oramala, da Cigognola al Pisternile, da Rocca de’ Giorgi a Zavattarello, da Casatisma a Rivanazzano — fieri e assorti nel ricordo di una vita lontana, quando vigilavano comunità soggette a signorie di marchesi e di conti, che erano i Beccaria e i Malaspina, signori di Pavia. Spesso i loro nomi sono ricordati in Bolle di pontefici, in diplomi di imperatori o addirittura nelle Antiquitates del Muratori, che è come essere nominati nel messale, eterni.
Voghera, che ne è il capoluogo, è anche il centro intorno al quale gravitano gli interessi della zona; e, forse, il più bell’itinerario per addentrarci nell’Oltrepò, è proprio quello che parte da lì, con la cosiddetta strada sui monti e, imboccando la Val Stàffora, percorrere in graduale salita fino a Varzi, per inerpicarsi sull’erta montagna dove i pascoli sono goduti in comune, come al tempo dei patriarchi.
Varzi è il cuore della valle; né l’operoso borgo di oggi riesce a dimenticare l’aspetto antichissimo del borgo rugginoso e intensamente medievale: un paese da Gènesi, con case basse e rugose, portici rozzissimi, mercati imbottiti di ceste d’uva, di polli, di salami, e il dialetto arcaico della sua gente. Aggiungete i pastori e le forti nevicate, come in alpe, con vento; che se vi sorprendono per la strada, vi sentite ancora viandanti del tempo d’una volta. E l’immaginazione, che fu detta l’aria della mente, facilmente vi persuade che, al tempo del re Alboino, proprio da queste parti, tra Varzi e Villavernia, ci aveva la villa il famoso Bertoldo, marito di Margolfa e maggiordomo del re. Si dice villa per riguardo al maggiordomo; ma doveva essere un cascinale male odorante di capre e di montoni, dal cui comportamento e atti lascivamente furbeschi, egli imparava a conoscere il manico di tutte le cognizioni che poi, seduto sulla collina, sfoggiava nei colloqui col re.
Ma né in Varzi né nei dintorni (nemmeno a Retòrbido dove in quest’ultimi anni ne hanno addirittura individuata la casa natale) nessuno finora ha pensato di ricordare con una lapide il singolare antenato che, più di ogni altro, rappresenta il genio furbesco della gente di collina.
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