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CESARE ANGELINI

PRIMAVERA LOMBARDA

In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1992, pp. 73-76.

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Campagna Pavese


In Lombardia (dico in questa mia Bassa) le stagioni intermedie che erano il bello dell’anno, pare che non esistano più. La primavera, per esempio, è ancora una questione da risolvere in che limiti esista. Certamente si caccia anche qui, essendo per sua natura invadente; né, d’altra parte, è possibile eliminarla dalla liturgia delle stagioni, per quel ritmo sapiente di gradazioni e verecondi passaggi che natura salva in ogni cosa. Ma in Lombardia non ci sta come a casa sua, e la gente non si fa sull’uscio per vederla arrivare. Fra il Po e il Lambro e l’Olona, chi volesse controllarla per quella ballerina che è nei versi dei poeti, resterebbe deluso. Sa che qui bisogna comportarsi con discrezione: pena il rischio di turbare il colore della terra fondamentalmente autunnale.
Vedetelo anche dal fatto che, mentre altrove primavera è puntuale alla chiamata dell’equinozio sotto la guardia di San Benedetto, in Lombardia, per l’ordine fondamentale del suo clima che è di paese del nord, tarda a venire, e marzo è ancora un mese d’inverno; par buono ancora il tabarro e la stalla.
Maggio poi è estate, sicché primavera finisce per essere d’assai breve durata: quanto dura l’aprile coi suoi trenta gioni e i suoi capricci. Aggiungete il fatto che in Lombardia lunghi listoni di verde non mancano mai, essendo la terra delle “marcite” o campagne sempre irrorate d’acqua scorrente che mantiene il rigoglio dell’erba anche d’inverno: e vi spiegherete come primavera arrivi tra noi senza improvvisi, cioè senza portare quel turbamento che la novità sbocciante del suo verde porta altrove.
Naturale che da una terra così, si esprimano temperamenti poco festaioli, ma piuttosto austeri, vorrei dire giansenisti; e non è senza ragione che il movimento di Porto Reale, dov’è più severità che allegrezza, proprio qui abbia avuto le sue colonie più dotte. Se è vero che “la terra molle e dilettosa simili a sé gli abitator produce”, ha da essere vero anche il contrario. Sicché, più che come una festa o una sagra, i lombardi intendono primavera sotto un aspetto e una funzione pratica: guida alle operazioni campestri di potatura e di semine, o ad asciugar bucati stesi sulle corde e sulle pertiche nei cortili e negli orti.
Poche terre hanno una letteratura primaverile scarsa come la Lombardia. Poliziano non poteva esser lombardo (e neppur Botticelli). Pascoli, per fare un bel salto, era irremidiabilmente romagnolo. Ma anche il Manzoni era inevitabilmente lombardo, con quel suo romanzo dove la assoluta rinuncia alle pompe nuziali della primavera è un fatto psicologico più che un dato cronologico. E dico anche di questi nostri minori, Carlo Dossi, Carlo Linati, volti piuttosto alla “sacra desolazione dell’autunno”. Carlo Cattaneo non poteva nascere che lungo il Naviglio; e proprio a lui è toccato di scrivere la Notizia intorno alle cose di Lombardia, che è un po’ il manuale della nostra terra, con quel tono pratico e austero, così atto a far conoscere acque campagnole che corrono sotto i ponti o nel fantasma della luna. Proprio a lui; e direi per quella necessità per la quale è toccato al Marino napoletano di scrivere la Canzone dei baci, o al Magalotti romano, di occuparsi di bùccheri e d’altr’e tali goloserie. Dico uomini e temperamenti atti a intendere e a esprimere forme immanenti e attitudini essenziali della loro terra.
Che è, alla fine, una questione di coerenza morale.