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CESARE ANGELINI DI NOTTE È PIU’ BELLA
In C. Angelini, Viaggio in Pavia,Pavia, Fusi, 1976, pp. 35-36.
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Una via di Pavia
Fotografia in Dario Morani, Poesia di Pavia, fotografie di G. Chiolini e G. Carraro, Milano, Alfieri & Lacroix, 1967, p. 23. |
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Non dico per quel fantastico che hanno naturalmente le cose di notte e le fa più segrete, e il visibile diventa invisibile. E più bella perché conserva il suo storico peso di mistero, la sua anima medievale che si rivela solo di notte; e l’invisibile si fa visibile.
Per una città come Pavia la notte è rivelazione di forme che si liberano nella limpida oscurità; è il suo momento essenziale, che, nello schieramento delle sue basiliche — quasi spie di Dio — la fa più attenta al Cielo, a coglierne l’armonia delle sfere. Come si conta di Pitagora, il cui sublime udito altro non era che una particolare affabilità dell’anima con le cose celesti.
La notte dona a Pavia quello che il giorno toglie ad altre città; il colore delle basiliche patisce un’alterazione sensibilissima: la pietra rossa del Carmine prende la malinconia di tinte incavernate, e l’arenaria eburnea del San Michele acquista trasparenze che la trasfigurano nel sogno romantico di età trovadoriche. Sono le scoperte che facevamo con l’amico Beonio, poeta e mago leonardesco, quando eravamo ancora giovanotti e ci attardavamo a frugare la città al buio; e in ogni monumento scoprivamo la bellezza di tutto il mondo.
Insomma, le solenni e contenute architetture trecentesche e cinquecentesche, di notte riassumono le loro forme essenziali con lo svanire dei particolari decorativi, con l’intensificarsi delle ombre e lo scavarsi di ritmi nuovi nella fuga degli archi e delle colonne che, se la luna ascende, par che ondeggino. Mentre, incastrati tra i muri di vecchie case spagnole consunte come reliquari di filigrana, i giardini bevono l’aroma squisito dell’ombra, preparandosi a rinverdire gli èmbrici e le cornici ai primi fiati del giorno.
Si pensa ai grandi ospiti disseminati nel catalogo dei secoli e che, mentre la notte si amplia, ripresa forma d’ombre, le compongono intorno un coro di simultanee presenze: Alboino, Boezio, Liutprando, Agostino, Epifanio, Ennodio, lo storico pavesissimo che ci parla di Odoacre distruttore di chiese. E Adelchi, Ermengarda, Paolo Diacono, Carlo Magno, Arduino... Tornano fra noi, e ciascuno parla delle cose più sue; il Cardano discorre ereticamente di magia; l’Amadeo ritrova i ritmi costruttivi della Certosa; il Foscolo rinnova l’invasata esortazione agli Italiani; il Goldoni declama la sua satira mordace contro le donne; il Monti la sua lezione sonora; lo Spallanzani spiega il mistero dell’uomo; il Volta il brivido della scintilla elettrica; Faruffini e Cornienti e Massacra la modulazione della pennellata; e Siro Carati (Siréi Carà, maestr’ad Canvaneuva...) risciacqua nel Ticino le sue rime pavesi. Spiriti che raduna solo la notte, e paiono essi i superstiti, i veramente vivi.
E, quando lo stridore dell’ultimo tram si spegne nel buio dilatato, la città porge orecchio a queste voci dei secoli, e a quelle che stanno oltre i secoli: le voci eterne della pianura che l’inghirlanda; acque che precipitano da fontane, navigli dove la luna naufraga tra foglie secche di gelsi e aromatiche arie di campi; echi di campane sommerse, cori di rane lontane come voci della stessa terra; canzoni che ondeggiano sul gemito appassionato d’una chitarra nell’ultima taverna rimasta aperta alla periferia.
Nella scia di queste voci è caro navigare, a lumi spenti, con l’anima della vecchia capitale, e accompagnarla verso lo sbocco del secondo millennio, che tante cose ha visto tristamente morire e non vedrà sorgere più.
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