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CESARE ANGELINI

PAVIA SOTTO LA NEVE

In C. Angelini, Viaggio in Pavia,
Pavia, Fusi, 1976, pp. 33-35.

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Pavia, via Luigi Porta con la neve

Fotografia di Luisa Bianchi


Sotto la neve, Pavia s’illumina e vanisce; quasi perde la sua forma di città per diventare un semplice e bonario paese allungato presso i ponti, oltre i quali è subito la distesa dei campi con file di gelsi e di pioppi e lepri che fuggono. Cancellando sulle strade le guide lastricate, la neve cancella i confini con la campagna; e, proprio come in campagna, la gente si fa sull’uscio a spalarne la soglia.
Aiuta il senso rustico, il fatto che per le vie s’incontra solo umile gente, di recente inurbata; donne in scialle o in capelli, in giro per le spese, per le piccole compere, operai chiusi nei mantelli, salutano con voce che si fa più chiara nella sonorità dell’aria; mentre il silenzioso fioccare suscita l’ilare immagine d’un mondo schiribizzoso e con fantasia.
Le case, che sono poi le vecchie case dove novellieri cinquecenteschi collocavano l’intimità delle piacevoli notti, si fanno più vicine e solidali; e poiché la neve conserva ancora una vita incantata, si torna un po’ tutti fanciulli nella maraviglia di veder mutate le sagome degli oggetti familiari; per esempio, le statue. In piazza del papa, la neve ha messo l’ermellino sulle spalle di Pio 5° che benedice dal suo bronzo fiorito e argutamente par voglia ricordare d’essere stato il pontefice che, come domenicano, ha inaugurato l’abito bianco. Nel giardino di casa Botta, lo Spallanzani l’ha raccolta nella mano tesa, e ne esamina la maravigliosa stravaganza, continuando le osservazioni e le esperienze cominciate a Costantinopoli in un suo viaggio famoso, e finite a Pavia. All’Università, il Volta, il grande elettricista, fa bocca da ridere nel suo robone bianco, sotto la feluca che fa da tettuccio al volto invetrato. E in piazza del Duomo, dove nemmeno il vescovo mette il naso fuori di casa per l’insolito freddo, la statua del Regisole pare uno di quei condottieri del medioevo che scendevano spesso e volentieri su Pavia, col vento aspro dell’Alpi fra la barba spiritata.
Diverte assistere al trasfigurarsi delle case sotto lo scherzo inventivo della neve: un camino diventa un punto interrogativo contro il cielo; un cespuglio, un altare con tovaglia bianca e candela; un pedale stroncato di gelso, un orso bianco in agguato, sceso per fame dal vicino appennino. Anche i giardini si fanno più intimi sotto le ore che cadono infagottate dai campanili; e le magnolie dell’orto botanico — l’antico orto dei semplici — persa la loro aria ambiziosamente scientifica, mostrano nostalgia di più aperta campagna.
Ma più buffe le torri, a cui la scherzosa ha messo un cappellaccio a barchetta, come a giganti goliardi in carnevale.
Dal Ponte vecchio arrivano lenti i carretti insaccati in tendoni carichi di neve; scendono dai paesi di collina dove ne è caduta di più, e ne sono una memoria poetica. Ma fate che un gregge di pecore, sceso da Zavatarello, da Varzi, passi lento sul Ponte coperto; Pavia prende l’aria d’essere ancora nella favola, o appena uscita da una stampa del nostro Giovita Garavaglia o del suo maestro Fausto Anderloni, incisori d’alta statura, che nel grande Ottocento, come i poeti, sapevano ancora commuoversi davanti a queste scene cosmiche, a queste nevi cristiane, vantamento e ricchezza dei nostri siti settentrionali.