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CESARE ANGELINI

PAVIA COL BEL TEMPO

In C. Angelini, Viaggio in Pavia,
Pavia, Fusi, 1976, pp. 32-33.

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Pavia


Anche i milanesi devono concederci che Pavia col bel tempo è proprio una bella città, forse la più bella città di Lombardia. (Credo che ci si possa stancare d’esser milanesi; mai d’esser pavesi). Quel cielo manzoniano così bello quando è bello, si distende particolarmente su di lei, che se lo gode sollevandosi tutta — torri chiese case — in un rapimento tranquillo.
Il bel tempo a Pavia è un accorto compromesso tra l’azzurro dei cieli longobardi e l’oro dei cieli latini mediterranei: azzurro inverosimile al nord, verso le Alpi; incandescenza scarlatta al sud, verso gli Appennini; come abbiamo spesso veduto nei nostri viaggetti in su e in giù, quando eravamo più giovani.
Di mezzo, sta la pausa sospensiva della valle padana, nella quale la luce trova il suo temperato splendore, la sua mitezza; in essa, Pavia acquista le trasparenze e gli splendori delicati della sua storia, e i colori sepolti nei secoli delle sue pietre tornano a gemere e a rivivere, dal rosso delle torri e del castello al plenilunio di San Michele la cui arenaria vanisce in una deliquescenza subacquea.
Anche questo è da notare; il bel tempo illumina la città dall’alto delle torri, che sono ancora parecchie e raccolte in arditissimi gruppi. Chi ha mai misurato l’influenza della loro presenza sul sentimento e sulla vita dei pavesi? Diritte, come una lezione continua di rettitudine.
Mi piace pensare che, giungendo dall’Adriatico, al mattino il sole le pennelleggia con gli ori bizantini rapiti a Ravenna, e le accende. Sotto tali torce, la città si rivela al naturale, nel suo colore che ha spesso toni di feccia di vino, ancora immune dalla sconsacrazione cementizia; e la terracotta dell’abitazione contiene il laghetto verde dell’orto come un tenero sfogo.
Altre città hanno l’impronta d’un tecnicismo che riduce le case a squadra e a compasso, senza garbo né umana espressione. In Pavia, le case sono ancora case, pensate, amate, ereditate: tetti di tegoli, finestre con tende abbassate come dolci ciglia, gerani ai davanzali, e gronde per le rondini. Pavia conserva l’impronta modellatrice del pollice, d’una città fatta a mano. Non so se l’espressione figulina sia stata usata per altre città; per Pavia è ancora vera. Si spiega il movimento delle sue strade graziosamente storte nel frequente anelito d’una salita o d’una discesa; il rifuggire dall’angolosità delle vie diritte, dallo spirito di geometria. E, proprio per quel suo ondulare tra l’orizzontale e il verticale, non pare sia cosa ferma e nello stesso tempo danzante? Certo piena di rilievi e di modulazioni armoniose.
A Pavia, la luce trova il suo condensatore o cassa di risonanza nella presenza del fiume. Privilegio delle città che nascono e crescono lungo le acque è quello di rispondere al richiamo della luce; e il Ticino, che è il primo ad accendersi e l’ultimo a spegnersi, si beve da millenni tutte le nostre aurore e i nostri tramonti. Un giorno, se mi prenderà l’estro, vorrò farci su qualche componimento poetico.
Chi la pensa da Roma, da Firenze, o ancora da Bologna, Pavia gli pare una città incavernata nella padania, con muggiti di vacche e di buoi che scavano tutti gli orizzonti. In parte è vero; ma vi sento dentro echi di letteratura, e la visione è arbitraria e parziale. Città senza dubbio remota, Pavia siede tra molli prati e ampi listoni di verde che filtrano in purità le nebbie calanti dall’alto milanese. Siede con aria, quale fu, di regina, nella conca degli Appennini che raggiunge attraverso quel canzoniere di ondulazioni che è l’Oltrepò pavese, caro a Carlo Dossi nativo di lì.
Si può dire, se mai, che, pur col buon tempo, a Pavia la luce non è mai squillante, sfolgorante, ma temperata dal pudore di un velo; e anche in giorni sereni, nel suo cielo sta sempre sospesa l’enigmatica gentilezza d’una nebbiolina, quasi argenteo incenso calato a proteggere l’intimità dei focolari.
Massime in questi giorni d’autunno, che il sole nasce e cammina per il cielo, senza raggi, slavato, come una smemorata spoglia di luna.