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CESARE ANGELINI

MA CHI L’HA FATTA NAPOLI?

In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1992, pp. 155-160.

***


Napoli


Se porti una pena con te, che so io? di giovinezza fatalmente perduta, di impegno tradito, di vocazione fallita, non fermarti a Napoli; non scendere a Mergellina; non andare a Posillipo, a Baia. In ogni punto, Napoli ti respinge. Si burla della tua pena, esaspera la tua ferita. Napoli vuol cantare il suo inno alla gioia. Napoli è, per definizione, la capitale della Campania felice.

Vi giungi, e ti senti in un tempio greco; non solo per la suggestione del nome. È il sortilegio inevitabile della sua luce che nasce dall’incontro del cielo col mare; quella stessa che pende sull’Odissea che qui per la prima volta «parve una parola vivente». Luce che viene dal mito.
Se cadi tra le braccia di quel golfo! ti senti soffogato dalla sua bellezza implacabile, non sostenibile alla nostra misura. Filature di luce t’avvolgono, ti legano, ti piegano; sussurri subacquei carichi di passione. Forse, le voci delle Sirene che hanno sedotto gli uomini di Ulisse.

E quelle isole attorno; ninfe incantate a guardarla: Nisida, Procida, Capri, Ischia, Sirenuse... Nomi pieni di magìa, che era il culto delle cose oscure. Bisogna trascriverli in greco, per ritrovare tutto il loro argento e la musica pura.
A Posillipo, vicino alla villa del suo Pollione, Virgilio ha trovato il suo altare di protettore e mago del luogo; il miele che lo nutre nei millenni.

Dico vicino all’antro della Sibilla cumana, cunicolo di friabile tufo che passa sotto un’altura. La grotta si rompe in grotticelle color d’urina. Lì sono raccolti i silenzi, gli indecifrabili alfabeti dei secoli, espressi in segni che nessuna sintassi sa ridurre all’intelligenza del volgo. Civiltà di segni, non di parole. Trasudano dalla terra i fermenti dell’Eneide; i fiati dei giganti della mitologia, sepolti vivi. Interroghi la Sibilla, che ti risponde ancora dal suo mistero. La sua voce somiglia al suono dell’onda che batte sulla riva: ssss..... ssss..... ssss.....

Non lontano, in questi Campi Flegrei, è il lago d’Averno, la paurosa entrata agli inferi. Un catino d’acqua, una specie di mar morto, come dice la parola greca «aorno», «privo d’uccelli», forse per gli aliti malefici che un tempo esalava.
Non vedi niente, ma senti che lì si son dato convegno tutti i morti che ancora respirano, sospirano.
Acque dimenticate dall’abisso dei secoli, spremute dal pianto dei morti. Lago senza profondità, non percorribile da comitive festaiole. Solo l’ha corso qualche nave di eroe greco o viaggiatore italico. Le erbe che tremano sulla riva — ginestre e asfodeli — hanno radici nella mitologia, si alimentano da civiltà remotissime.

A Cuma, sulla soglia dell’antro della Sibilla, ho trovato un’ala, non saprei dire di quale uccello; ma un’ala vera di uccello vero. Mi ha fatto riflettere che, forse, in tempi remotissimi, l’averci trovata un’ala, ha fatto sorgere il mito di Icaro che, sceso lì, offre ad Apollo l’ala del suo volo, com’è detto negli alti versi dell’Eneide.
O, forse, il mito è tale realtà che un certo momento si fa sentire, dandocene un appiglio, una testimonianza.

Nella storia, Napoli è il centro del Mediterraneo che, a sua volta, è il centro dell’Occidente. Greci, siculi, normanni, aragonesi, angioini... Napoli è porto di mare, è porto di storia. Tra le braccia del suo golfo s’è aperta la via per la quale le maree di millenni sono affluite, e millenni di saggezza sono defluiti per il mondo. Civiltà dell’ulivo, civiltà mediterranea...

Se un poco ti riprendi dallo stordimento, ecco, ti ritrovi nel «reame» di Napoli, e par che dica più di regno. La parola schiude orizzonti alla fantasia, e rende un po’ del barocco che è nell’indole decorativa e sfarzosa della gente partenopea. (Il Marino è di qui.) Vedi Napoli d’oggi, e il suo popolo di poeti e di lazzaroni abbandonati a quello stupendo spettacolo che è il fluire del tempo intorno a sé. Tutto pare sospeso ad ascoltare canzoni appassionate di barcaioli, o di carrettieri seduti sulle casse dei pomodori. Dal Vomero a Castel dell’Ovo, Napoli è un candore di bucato al sole.

Se gli dici lazzarone, il napoletano reagisce. Non sa più che il lazzarone è il saggio, è l’uomo più vicino al re; è la consacrazione del genio di Diogene che si sente più alto del re, perché vuol godere il sole. Gli stessi re del «reame» non differivano dal lazzarone e parlavano il dialetto come lui, con lui.
Gente meravigliosa, ha già rivendicato tutto; esauriti i problemi, attutita l’ira della storia, smorzata la diffidenza, i rancori di classe. E un Masaniello, se dovesse ricomparire, sarebbe solo per fare spettacolo e creare buon umore.

Ma a Napoli io ci sono andato per vedere Pozzuoli, il luogo dove Paolo sbarcò col messaggio cristiano tra le pieghe del mantello; giungendovi col vento del Sud sulla bella nave alessandrina. Dovevo fare questo viaggio per documentarmi, per essere in grado di commentare visivamente un versetto degli Atti: «Flante Austro, secunda die, venimus Puteolos». Come dire: «Sollevatosi il vento del Sud, l’indomani venimmo a Pozzuoli». Versetto col vento in poppa. Era il porto della flotta romana sul Mediterraneo. Quando vi scese lui, un molo si slanciava nel mare con una trentina d’archi. Pozzuoli era l’ultimo anello di una catena di porti — Antiochia, Efeso, Corinto — che legavano l’Oriente con la capitale dell’impero. Dire che in quella sparpaglia malodorante, ci ho trovato l’orma del sandalo di Paolo, ne avrei una gran voglia. Comunque mi son guardato attorno che nessuno vedesse, poi mi sono chinato a baciare la terra; come deve aver fatto l’apostolo al suo arrivo, che segnava il momento storico della marcia del Vangelo su Roma e su l’Italia; l’avventura che dà ai nostri giorni un senso celeste.