CESARE ANGELINI MEMORIE D’AUTUNNO
In C. Angelini, Il piacere della memoria,Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1977, pp. 81-84.
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La stessa parola pare un colpo di timpano: autunno. Una volta i poeti era la prova della loro vocazione descrivere l’autunno, la misura della loro anima esercitata nella lettura dei classici, e Virgilio e Tibullo. Attenti alle apparizioni di cui le stagioni nella loro vicenda son vaghe, erano sensibili al suo temperamento, ai suoi colori e odori, alle sue magie struggenti come note di flauto abbandonate sull’erba. Oggi s’è perduto l’usanza. I poeti hanno voltato pagina, cantano altri temi. Più che giusto.
Ma la gente avverte ancora il suo sospetto nell’aria, il suo arrivo in mezzo agli orti, sulle soglie delle case e delle chiese, e sente che in questa stagione Dio, il passero e il filo d’erba ci sono vicini per quel senso che è in giro di assunzione delle forme visibili nelle forme invisibili.
(Forse, sui monti Autunno è il nome d'un pastore che si perde sufolando “in qualche verdi boschi”).
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Chi indugiasse oggi a parlare d’autunno, avrebbe l’aria di uno che si metta a fare il pezzo di colore; ed è soltanto il bisogno coraggioso di tirar fuori dall’anima quel che ha maturato dentro. Un’arte di vivere la stagione con intimità, confidenza, che è un modo d’essere religioso, aderendo a una saggezza naturale. Autunno spoglia le cose per mostrarcele nella loro nudità che è interiorità, verità, più compiuta rivelazione.
(Una volta m’è scappato di dire che l’autunno l’ha inventato il Manzoni per impreziosire il suo romanzo, mettendo vicino alla povera gente anche la stagione povera, povera per aver tutto donato. Santità calata nel tempo).
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Giunti a questa pace, l’autunno sceglie fiori per quadri che dipinge qua e là; e essi s’impegnano a durare in colori che più fini la liturgia non ha: certi violavescovo, certi verdepascolo... Colori profondi, meditativi, di stoffe antiche, dimenticate nei cofani.
Creature d’una stagione un poco umiliata, i fiori d’autunno rischiano d’esser più belli di quelli allevati nelle stagioni ricche e nuziali. Non vivono nei poemi, non adornano conviti, non amano lusinghe di profumi; in compenso hanno alcunché di domestico che ci tocca dentro. Fiori lisci, leali, espansivi; la loro lode è nel Vangelo: Guardate i fiori del campo... Due o tre che si trovino insieme, magari sullo sfondo d’un bel lapazio, badano a fare stagione; ci fanno sentire il piacere e la mestizia dell’esistere; quella malinconia che occorre perché la bellezza sia piena.
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La dalia, per esempio. Alta, sospesa nello spazio dell’aiuola, pare una raggieria d’ostensorio affaccendata tutto il giorno a benedire. Fiore socievole, ama la macchia, la compagnia. Cresce volentieri presso l’acqua corrente: s’irrora del suo murmure.
O i settembrini, così gremiti di celeste. Fiori che non contano, che non si vedono in vetrina; i fiorai li ritengono troppo popolani. A mazzi, a spiazzi, fanno macchia lungo le siepi, ai bordi degli orti, quasi parenti poveri. Solitamente muoiono sullo stelo, dove son nati. Ma molte farfalle prendono il loro colore per esser più belle, per esser credute fiori.
O l’astro. Il nome pare un ricordo di cielo perduto, e in qualche cosa somiglia alla stella, per il tremolio raggiante dei petali spansi e per i colori.
Se ne cogli uno (qualcuno l’ha detto) in cielo trema una stella; e tu hai tra le mani un frammento di mistero. Anche un fiore più dare la vertigine.
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