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CESARE ANGELINI MI RICORDO DI ITACA
In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1992, pp. 161-164.
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Ci arrivammo nell’ora in cui l’acqua s’accende di stelle presso i remi dei naviganti; e il mio modo di salutarla, era chiamarla a voce alta: «Itaca, Itaca», imitando il suono ridente, modulato la prima volta dalla gola d’un rosignolo che la guardava dal Nérito. Né la nave la prese d’assalto, ma seducentemente, come si conveniva a un’isola di memoria stanca, rarefatta dai millenni, sospesa nella sua serena antichità.
Itaca non era più un verso d’Omero, una favola; tornava geografia. L’Odissea diventava paese. Non per questo perdeva nulla ai miei occhi: era, se mai, qualcosa di simile al verbo che si fa carne, alla fantasia che si fa pietra. Del resto, non avrei incontrata Itaca «oggetto vivente», se prima non avessi incontrata la favola, che è il guscio perlaceo dell’«oggetto vivente».
Itaca, eco della vita poetica degli antichi; m’incontravo dunque con quelle età remote. E nel guardare la terra dirupata e sacra, la memoria cercava la verità degli aggettivi di Omero («isola sassosa», «rupestre», «selvosa»), che mi parevano gli echi odorati di questa figlia del mare.
Alla quale Omero ha dato un aspetto umanissimo, presentandola come l’isola dei ritorni, la nostalgia del focolare, il richiamo della casa. Per Ulisse, Itaca erano queste quattro spanne di terra che ora io calcavo, con su una famigliola, un porcaro, un cane: era un filo di fumo che usciva dal camino ben noto di una vecchia casa lungamente abitata, dov’erano rimaste le virtù dei tempi andati. Un mondo di piccole cose, ma che hanno presa sul cuore dell’uomo; tanto che, se vengono a mancare, quell’uomo è infelice, anche se, in giro, nelle lunghe peregrinazioni, ha incontrata la maga della felicità.
Per non so quanti passi, volgendomi qua e là, non ho incontrato nessuno, nemmeno un capraio, nemmeno un custode di fragili verri, che con la sua presenza desse il senso del vivo, dell’abitato. Il fatto quanto mai strano mi permetteva di tornare a crederla favola, unicamente abitata da un Ulisse inventato, reduce vagabondo; e sull’isola breve ricadde l’infinità dell’Odissea.
Itaca è sempre un punto ideale della terra, di quelli che mantengono giovane il mondo.
Nello staccarci dalla riva, per non so quale effetto d’improvvisa rotta della nave, la luna parve precipitarle addosso dall’alta Cefallonia; e fu tutta un tremito, un tinnito.
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