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CESARE ANGELINI

NOTTE FANTASTICA DEL MALATO...

In C. Angelini, I frammenti del sabato,
Milano, Garzanti, 1952, pp. 71-74.

***


E vorrei dire malato di una certa serietà, documentata da quaranta giorni di letto e febbri a 39,5°-40° per due settimane di fila: fuoco che avvolge, e si scioglie in fantasmi veementi al calar della notte. Non sapeva cosa fossero questi fantasmi; questo lievito inconsistente che gonfia la massa del vuoto, circondandola come d’onde che montano, implacate. Ora lo sa. Ma, ecco, quale carro lo afferra e lo scaglia per gli abissi capovolti? Qual buio vento lo trascina per i vampanti spazi? Il carro sale, par capovolgersi, precipitare; riprende quota, risale verso altezze di vertigine... Mio Dio, questo è mostruoso, toglie il fiato. Ecco, va a cozzare contro una muraglia compatta, da inferno dantesco, dominata da torri superstiti da millenni. Nel mezzo, una porta a due battenti che s’aprono e richiudono con ritmo non uguale. Giungervi a battenti aperti, vuol dire esserne inghiottiti; chiusi, è un rinvio; il carro non sta fermo sospeso sull’abisso; precipita giù. Ed egli si ritrova nel solito letto della camera nota, nella penombra viziata come un’acqua zuccherata.
Gli torna l’ossessione febbrosa della macchia nera sul muro di sinistra. Uno scorpione? un millepiedi che lo fissa con intenzione? No, una macchia vera. Non vorrebbe guardarla; ma qualcosa lo obbliga, attira l’occhio in modo inevitabile. Ogni rumore gli pare una voce; gli scricchiolii, urti creati apposta per farsi sentire. Uno, che si ripete, è un gemito vero... Forse la voce di sua madre che gli dice la parola non potuta dire al momento in cui se n’è andata.
La febbere alta gli batte ai polsi, gli martella il capo. Appena s’accorge che il dottore con un suo ferretto minuscolo gli ha beccato sangue dal pollice e dall’endovena.
Le undici. Pensava fosse notte alta. Gli sovrasta ancora tutto il lungo peso del buio in cui la notte s’avvalla; il gocciare stentato, ironico delle ore e delle piccole mezz’ore che paiono subdole ferite al corpo della notte. Sogna un po’ di sonno calmo, che lo riposi e ristori; e poter rivedere, in sogno, il volto dei suoi vecchi, morti tant’anni fa; il volto di sua madre, morta nell’ottobre del 1917 ch’egli era impegnato in un’azione sulla Bainsizza, nel vallone di Chiapovàno; e non la vide più, più nemmeno in sogno.
Per aiutare un poco il sonno, qualcuno vorrebbe dargli una goccia di cognac. Impossibile. L’odore arzente gli ricorda troppo lucidamente che nell’altra guerra mezz’ora prima dell’assalto alla trincea nemica, il sergente girava per i camminamenti distribuendone una tazza a ogni soldato, perché prendessero coraggio, poveri figliuoli, a uccidere, a morire. E si ritrovava nelle trincee del monte Badenèche, delle Melette di Gallio, di Montefior, di Sassorosso, tra il fango e i pidocchi e qualche cadavere la cui presenza diventava familiare.
Mezzanotte. Poi, silenzio lungo, esasperante. Torna a guardare, ossessionato, la macchia nera sul muro di sinistra: uno scorpione? un millepiedi che fissa con intenzione? No, la solita macchia nera. Ma dove vanno a finire le ore della mezzanotte nelle notti di dicembre? dove scappano? Lontanissimo, e nessuna vuol più ritornare.
Tornano invece, con la febbre che sale, i fantasmi come in un assalto, violenti, veementi. E ancora gli pare d’esser ghermito dal carro per il volo in zone altissime, vampanti; e ancora la muraglia e la porta e i battenti chiusi: la stagione all’inferno.
Poi, una tregua; un po’ di riposo, di vero sonno. Nel sonno un sogno. Sente un passo strascicato, che viene avanti dalla stanza vicina, e una voce lisa per troppo silenzio, e un poco ironica: — Figlio mio, ma dove sei venuto? queste sono le sale da signori; le nostre erano poveri solai di campagna... S’avanza lenta, curva, quasi a toccare terra, la testa avvolta nel largo scialle che metteva la domenica per andare a messa. Ferma ai piedi del letto, con un movimento sicuro, si alza sulla persona, guarda, senza sorriso, come guarda una santa. Lei! sua madre. S’allunga per abbracciarla. Svanita... Crudeli sogni, su quali fragili foglie posate il piede, che subito crollate? Il sonno riprende, continua a stracci, nella speranza di ricuperare qualche filo del sogno.
Passano così le ore, miti, placate. Suonano le sei; ribattono liete: sei, docili e contente come colombe uscite dal colombaio. Aprono il volo alle campane del mattino. È la rugiada. Il meraviglioso prodigio del giorno.