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CESARE ANGELINI

FRAMMENTI

In C. Angelini, I frammenti del sabato,
Milano, Garzanti, 1952, pp. 55-60.

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A proposito: dove vanno a morire gli uccelli? Sono parecchi giorni che me lo domando. Con tanti e tanti che ce n’è in giro — sotto le gronde, su gli alberi, nell’aria dove aprono spazi — chi ne ha visto mai uno morire? Uno morto? Chi ha mai visto il cadaverino d’un rosignuolo, d’un passero? (fuor che il passero di Lesbia nella poesia di Catullo che ha fatto piangere tutte le Veneri e gli Amori). Dove vanno dunque a morire? Quale pudore li sottrae ai nostri occhi durante la loro malattia e nell’ora ultima? Dove hanno i loro piccoli cimiteri? Mi sovvengo d’un quadro di Gustavo Moreau, nel quale un misterioso uccello non aspetta l’arrivo della morte per fuggire di casa.

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In una vecchia grammatica della lingua italiana ho trovato alcune voci di verbi cosiddetti difettivi. Che frammenti di liriche! Per esempio: aulisce, auliscono, auliva, aulente, aulire... (Chi coglie rose in giardino? O chi ha il basilico in seno?). E tutta la grammatica ne odora.

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«Ogni anno si miete.» Nessun apologista ha mai espresso un più convincente e risoluto sentimento della Provvidenza vista nel ritmo delle cose eterne, nella sinfonia infallibile dei giorni e delle stagioni. Parole rapprese di luce evangelica e confortate dall’esperienza dei millenni e delle civiltà. Potevano dirle Esiodo, Omero, Virgilio. E invece le ha dette Renzo, umilmente, guardando l’acqua dell’Adda...

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Che il piacere non esista positivamente ma sia soltanto una rapida cessazione del dolore, è la famosa teoria del Leopardi; invade i Canti e le Operette e i Pensieri, e gli giovò ad essere considerato, un tempo, filosofo. Pareva anzi che l’avesse trovata lui, e costituiva quel suo «pessimismo» che una volta faceva quasi paura a più d’uno, e se ne discorreva lontano dall’orecchio dei giovani. È, invece, l’idea-base, del trattatello del Verri (fine Settecento) Su l’indole del piacere e del dolore; dove dice, tra l’altro: «La felicità, considerata come valore positivo, è un sogno».

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Il motto benedettino, si sa, è Ora et labora, prega e lavora; e il motto francescano, Pax et bonum, pace e bene. L’uno e l’altro rappresentano non più il momento nativo, lirico dell’Ordine, ma il momento storico, la maturità, la fisionomia definitiva. Del suo binomio, l’Ordine benedettino oggi attua soprattutto la prima parte: Ora, prega. L’altra, l’ha lasciata cadere, perché il lavoro — il lavoro manuale che primamente i benedettini diffusero come redenzione della terra e redenzione dell’uomo — è diventato possesso del popolo, di tutti. Il motto francescano è rimasto intero; perché il bene è quel possesso che doni ma non perdi; anzi, più lo diffondi e più resta tuo.

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E il famoso motto «Ho quel che ho donato», poteva trovarlo San Paolo, tanto è cristianissimo, nel senso che intende e rende lo spirito della religione. Il cristiano ha (habet, possiede) solo quello che ha distribuito in bene, con carità (da charis, grazia). Solo allora è veramente suo, scritto in Cielo sotto il suo nome. Il possesso, ch’era cosa provvisoria, diventa proprietà, cosa stabile. Un esempio. Ho una mela; se la mangio io, tutto finisce lì. Se la offro al povero (dico al più povero di me), si tramuta in una buona azione, che resta e mi segue. L’ho ancora, l’ho sempre; appunto perché l’ho donata.

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Mi sono improvvisamente ricordato del Vangelo e d’un suo suggerimento: «Colligite fragmenta, ne pereant»: raccogliete i frammenti, che non si disperdano. Pensavo fosse di Matteo, già cassiere, già banchiere, adatto quindi a trovare l’insegna d’una Cassa di risparmio. Invece è di Giovanni, il mistico. (Le sorprese dei mistici!) Insegnamento di saggia economia dato nel corso d’un miracolo, la moltiplicazione dei pani. Quando l’uomo rappresenta nella sua immaginazione la onnipotenza divina, pensa cose d’una prodigalità fantastica. Quando ne fa uso Iddio, rimane il Dio saggio, che insegna la prudenza agli uomini.

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Diceva ieri l’A. M. guardando un mazzo di amarilli: — Somigliano certi uccelli del mezzogiorno, scanzonati, beffardi. Sghignazzano.
(L’avrebbe raccolta anche Jules Renard nel suo Diario, il libro dei capolavori dipinti su un’unghia).

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Qualcuno ha detto che la peonia è una rosa diventata sciocca a forza di voler strafare.
Non è stato gentile. È un fiore, e si dice dunque una perfezione. I suoi petali serici, impalpabili, sono soffi di luce che si volatilizza. Girarla, continua a cambiar sfumature, come le conchiglie. Si pavoneggia.
Un vaso di peonie sul tavolo, dà l’impressione d’avere delle fanciulle in casa: luminose, sonore.

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Rame di calicanto, fiorite, con quella loro nuda e industriosa economia: si reggono insieme con la maravigliosa e saggia naturalezza d’un alveare al lavoro. Creano un luogo d’api.

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Per quante lodi siano state fatte dei fiori, la più bella è nata dal genio della lingua francese, quando l’ha fatta femminile: la fleur.