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CESARE ANGELINI

SALUTO ALLA RONDINE

In C. Angelini, I frammenti del sabato,
Milano, Garzanti, 1952, pp. 29-34.

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In cima a questa colonna tremoli l’ombra dolce d’una rondine venuta d’oltremare, dall’Oriente vago e lontano; forse dall’Egitto dove le rondini vivono sotto i tetti degli Dei. Silenziosa o ciarliera ma sempre benedetta, ella è tra i migratori quello che tra le piante è il mandorlo: vigilante. Di lontano sente fiato celeste, passo di giorni nuovi. E arriva e canta.
Dai libri sacri delle antichissime liturgie, le è stato affidato per sempre il messaggio meraviglioso. Lo porta in seno e lo scuote, come donna un cespo di basilico. E in quel momento è primavera.

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Sempre presenti al Cielo, gli alberi sono le creature più naturali del mondo; istintivi, spontanei. Creature senza peccato, si confidano ai venti, e li assolve la pioggia, il sole.
Scrisse un poeta russo che agli alberi e non a noi è data la grandezza di una vita perfetta. Una intuizione, una verità poetica, ma insomma una verità. E se «vivere in alto» è vita perfetta, chi più degli alberi, liberi e sinceri?
È ingiusto vederli solo sotto l’aspetto descrittivo per cavarne un po’ di colore, un po’ di poesiuccia frivola, come fossero creature unicamente ornamentali che, a un fiato di vento o al lume di una luna, non fanno che ridere e parlare. Sono, viceversa, presenze serie, da vedere su un piano morale d’importanza religiosa. Sono presenze mistiche. Come dimenticare che il primo albero rappresentò addirittura la scienza del bene e del male? Altri furono intimamente uniti al destino degli uomini; e Virgilio e Dante ne hanno fatto corpi e custodie delle nostre tragiche anime. (Certo anche sotto un aspetto visivo gli alberi interessano. Basta uno — anche uno solo — a far paesaggio: un esile pesco, un platano autorevole, un ippocastano che d’autunno s’indora e rifulge e illumina la notte.)

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«L’esile pesco...» E qualcuno pensa al sonetto giovanile di Pastonchi, dove il pesco fiorisce come in un orto. Esile è il pesco, e, per la sua stessa esilità, indifeso. È anche giovane, senza esperienza del tempo, dei tempi. Ma è marzo, la sua stagione, e fiorirebbe... Però i monti sono ancora nevosi, sono possibili minacce di venti. E il pioppo e il fico, vecchi e prudenti, che diranno? Il pesco esita. Ma una tiepida notte, ecco, dal dolce miele del sonno, esce il miracolo bianco–rosa. Tutto l’orto è ai suoi piedi, e par che adori.

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Dipingere è un potere squisito, magico, è mescolato di barlumi soprannaturali: l’intuizione del colore, l’intesa con la luce; come si mescolano i colori sulla tavolozza, come si tuffano e si restaurano nell’aria, come si calano sulla tela, sul muro. E poi ne esce un fiore che par da cogliere, un’acqua corrente tremante, un vivo ramo di prugno che nel vento sibila come serpe, una fresca ragazza.

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Le fatiche del vento! Lasciamo stare quelle un po’ prestigiose: camminare in vetta agli alberi, soffiare sui fuochi per spegnerli, sulle stelle e le accende. Lasciamo stare anche l’altre piuttosto frivole: come quando s’improvvisa valletto del sole e gli porge, al mattino e più spesso la sera, un galante ossequio di nuvole, delle quali egli è naturalmente il pilota. O quando, più divertito, in piena contrada solleva gonne eccetera; e non capisce che non è una cosa per bene.
Ma che bel vento quando s’inanella tra l’erba del prato, o tesse figure mutevoli tra i rami ancora spogli, o tra i pali d’una vigna imita il flauto di Pan, o rifà il lamento d’Orfeo che cerca Euridice... O quando pulisce con arie nette e pulite un casolare, un paese in collina e lo presenta sospeso in silenzio estatico. Aumenta i colori, la festa delle apparizioni. Il Vangelo dice che spira dove vuole, e nessuno sa donde viene e dove vada. Ma non lo sa nemmeno lui. Sapete che il vento è cieco.

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Quando la poesia si scriveva in versi, e quei versi — quasi donati dagli dèi — per rispetto si scrivevano con la iniziale maiuscola... Oggi, anche in poesia tutto è minuscolo (e non solo le iniziali).

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Una figura scomparsa è ormai quella del «giramondo»: il quale, a dirla con parole che dànno nel poetico, apparteneva alla famiglia dei pellegrini, dei mendicanti, dei frati cercatori, degli uccelli migratori, ed era un po’ tutto questo. Il giramondo (uomo senza casa né radici di famiglia, si diceva anche vagabondo) appartiene al passato, quando le strade camminavano lente e la distanza aveva ancora un suo mistero, una sua santità. Giungeva al paese a epoche fisse, come una data del calendario. Tornava da qualche santuario, sacco in spalla, bianco di sole e polvere; si fermava sulla soglia di un’osteria dove l’oste gli offriva pane e vino quasi a nome di tutto il paese: vinello chiaro da far passare la malinconia.
Ma il giramondo era malinconico soltanto per sé; per gli altri aveva sempre una canzone. La notte, la passava sul cascinale o alle belle stelle. All’aurora, via col sole e il vento, e con quel senso amaro d’uomo sempre solo al mondo.

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Esaltare l’umanità della casa: trepida, materna, se vede il suo ospite varcare la soglia e andarsene per le pericolose vie del mondo. Contenta, quando lo rivede tornare, sano e salvo, e vittorioso. Richiude la porta, accende la lucerna; fa festa. C’è ancora un valore nella vita; un valore genuino, sincero.