CESARE ANGELINI LA STAGIONE ISPIRATA
In C. Angelini, I frammenti del sabato,Milano, Garzanti, 1952, pp. 25-28.
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Una poesia (quand’è vera poesia) è simile alla mitologica mezzina di Filemone, che nessuna sete può svuotare. Quanti hanno bevuto ai «frammenti» dei melici greci! Ma la loro dolcezza non si esaurisce né coi nostri assaggi né coi nostri giorni. Né importa che siano reliquie, quasi santi avanzi, e ognun d’essi fermi un gesto interrotto, un piede danzante, una conchiglia, una parte di vaso, o una bocca di donna che parla bacia ride. Momenti di passione, di vita, fatti eterni nel ritmo meravigliano le menti dei fanciulli e dei grandi, per sempre. Veramente il poeta qui è una cosa aerea e innocente; e ricupera anche per noi il tempo antico.
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Un gregge di pecore che passi, lento, per le nostre contrade, sveglia inevitabilmente nel cuore il ricordo delle grandi notti d’inverno che portano la neve e il vento; ricordi natalizi con esitanti immagini di presepio, di campane lontane, di nostalgiche attese. Gregge e pastore sono — e rimangono — figure bibliche, del tempo dei patriarchi, del Vangelo; e ci viene, non so, di inginocchiarci innanzi ad essi, come per un’apparizione, come davanti a una sacra rappresentazione. Pare che qualcuno stia per raccontare una parabola, la parabola del buon pastore.
Ho visto umili paesi abbellirsi improvvisamente al passaggio d’un gregge. (Di notte, in campagna, è un chiarore che cammina.)
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Quante volte ho visto una capra brucare sul ciglio d’un fosso o in mezzo al prato, sola o sotto la custodia d’un garzoncello distratto. L’ho vista tremare, belare, mentre mi fissava con occhi pieni di smarrimento, di invocazione. In verità, il verso d’ogni altro animale tira sempre al canto, ed è espressione d’amore. Il belo della capra, tenero come l’erba, è irrimediabilmente un pianto. La capra è l’animale più carico di dolore. A guardarla, fragile e sempre in sospeso, si pensa che abbia sempre innanzi agli occhi la visione del suo sacrificio vicino.
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Domani forse diremo che la primavera è la rettorica dell’anno. Oggi la chiamano la stagione ispirata, e vogliamo intriderci nelle sue cose celesti, nei suoi giorni giovani. Festa dell’aria, che s’apre in colori nuovi e sospesi, non ancor scesi in terra ma già presentimento di cose molli e vaghe che saranno. Festa del primo mandorlo, che ha perduto il suo rigido e feroce, portando sulla cima un desìo di roselline fresche come fiato d’Oreadi. A vederlo così vivente, torno a leggere la favola del Novellino dov’è la sua storia e il suo mito. «Qui conta come narciso innamorò dell’ombra sua, e fu mutato in nobilissimo mandorlo molto verde e molto bene stante, e fu ed è il primo albero che prima fa fiore e rinovella Amore».
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Ah, ladro d’un Gide. Questa l’ha proprio rubata ai miei quaderni segreti. «Ciottoli bianchi delle strade nell’ombra, ricettacoli di chiarura. Eriche bianche nei crepuscoli delle lande; lastre di marmo nelle moschee... Tutto che è bianco, è chiarura conservata». Questi sono i miei nutrimenti terrestri. Ma i ciottoli stamattina illuminano l’aria; poiché la pioggia di marzo li ha lavati, levigati, scavati, brillano come fiori azzurri, rossicci, bianchi. Giorni in cui le strade paiono aiole di giardini.
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Ma che cos’è questa primavera che ci cala addosso e ci investe coi suoi fiori e odori, con la sua luce abbacinata, e con toni nuovi e indiscreti ti fruga, e accarezza e scopre? Tu cammini trasognato e sgomento, e resisti a lungo — con i pensieri (li raccogli tutti) e le abitudini e i cari sentimenti; — vuoi essere «coerente» alle conquiste faticate... Ma l’effluvio dei glicini, il sole, lo sciacquio rilucente e beato delle foglie nel sole, il respiro del passante, una gonna chiara che contro le forme si sventaglia in palpiti di vento... oh ti burlano! Ti burlano, creatura scura della natura che uscita da lei, ti sei bruciate le ali, bendati gli occhi, legata ai ceppi delle «convenzioni». Così mutilati, si sta, illusi di una vita consapevole. A un tratto la terra sboccia tutta e fiorisce, raggiunge il massimo gaudio della sua perfezione: è bella, nella obbedienza gaudiosa, divina, al comando dell’Essere più bello e gaudioso.
Noi stiamo piccoli, scuri, mutilati, avvinghiati mestamente all’agonia, ai ceppi dei nostri pregiudizi, ai mali costruiti dall’uomo, pregiudizio su pregiudizio, insufficienza su insufficienza, dai millenni...
Questo è stato il mio piccolo pianto dei giorni passati; il gemito delle mie spaventate ferite. Le cose negate, inutilmente rinunciate...
Conveniamo che la primavera è una stagione difficile.
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