CESARE ANGELINI DEL NON TI SCORDAR DI ME (E D’ALTRE COSE)
In C. Angelini, I frammenti del sabato,Milano, Garzanti, 1952, pp. 21-24.
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La sua gentilezza appartiene all’Ottocento. Van Gogh non l’ha mai dipinto; preferiva le chiassate del girasole. Piccolo fiore che non ha più linguaggio per la gente d’oggi; forse il più piccolo, certo il meno rumoroso e il più carico di storia di noi mortali. Fiore esitante, non manca di un suo ardore; cresce a spiazzi, ad aiuole, e non pare più un fiore, ma un colore ricevuto dall’alto. Rose, gerani, garofani, («la canaglia dei fiori» direbbe il Magalotti) sono suoni, profumi, volumi; conoscono tutti gli altari e i caminetti, tutti i genetliaci e gli onomastici, gli sposalizi, le bare, e le rime dei poeti. Ma quello, appartatissimo, se lo cogli, non è per ornartene, ma per chiuderlo tra le pagine di un libro. Dice un’ansia sempre nuova e fonda, un sospiro, un fiato, un passato che vorrebbe tornare presente, un momento di vita, un pianto; forse un rimorso che resta come una ricchezza; una data, un addio. Penso specialmente a quelli che fioriscono lungo i fossi, in campagna; quasi stracci di veli di ninfe inseguite e fuggenti: sul verde liscio dell’acqua, portano a galla il loro celeste.
Non ti scordar di me... Domanda pietà con pudore, con un gesto che esita. C’è da vergognarsi a nominarlo oggi, ad avergli simpatia. Pure continua un sentimento universale, eterno, che agita il mare dell’essere; e fa dell’onda un seno, del seno un’onda.
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Chi domanda l’età del gelsomino? Ma questo che fiorisce la mia finestra anche nella tarda estate, ha due anni. Mi è giunto un mattino da Ischia, col bastimento, e già tutto fiorito. Mi ha fatto pensare che un tempo erano le odi di Saffo che viaggiavano sulla nave da Lesbo a Samo o a Mitilene, quando un re o un poeta, che era più alto del re, le chiedeva. Oggi è il gelsomino di Ischia. Che vale bene un’ode. O potrebbe ispirarla.
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Nell’orto ora è la quercia che intona l’autunno, se le sue foglie cominciano a tingersi di colore tabacco, color vaio, color saio. Alcune sono già cadute: preziose pezze di tappeto al pedale dell’albero.
L’ultima eleganza della foglia: cadere danzando, mollemente, da non farsi male. Né cade mai col margine, ma con la pagina. Umanamente s’adagia.
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Questi occhi! Sempre in cerca di meraviglie, di novità. Sanno che la loro funzione è quella di inventare il mondo ogni momento, ogni volta che escono sul mondo. E l’universo trasalisce ogni volta che si sente guardato da due occhi. Si fa più bello.
Ragazzo, volevo farmi fabbricatore d’occhi; questi due già non mi bastavano più per raccogliere le meraviglie che divampano tra la terra e il cielo.
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Chissà se gli animali sono per loro natura tristi o lieti. Rilke parla del «viso afflitto» di certi uccelli che non ne possiedono altro. E il Leopardi in una famosa operetta parlò della letizia degli uccelli. E se in un idillio rappresentò il passero solitario pensoso e malinconico, un verso dopo si affrettò a dire «gli altri augelli contenti...».
Ma le parole più belle sugli uccelli, le ha dette il Vangelo, che esalta soprattutto gli umili passeri e dice che Dio è dove è un passero che cade. Per questa parola il Vangelo mi piace infinitamente. Una volta chiama i passeri a paragone con l’uomo: «Guardate i passeri dell’aria: non seminano, non radunano nei granai...» Poesia? Anche; ma di quella che alimenta la fiducia nella vita, la semplifica, la rende accettabile.
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Avete notato come a prosciugare una pagina nostalgica, magari un po’ sentimentale, basta citarvi dentro un verso greco o latino? La scotta, la cauterizza sapientemente; la salva. Peccato che io non l’abbia lasciato cadere nel frammento del Non ti scordar di me. E c’era, che cadeva a proposito, un bel verso di Lucrezio. Ma ora non voglio turbare quel piccolo episodio; quel tenue murmure.
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