CESARE ANGELINI INTERPRETAZIONE DEL CORVO
In C. Angelini, I doni del Signore,Milano, Bignami, 1970, pp. 39-44.
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Col dicembre e i cieli bigi e l’aria di neve, tornano i corvi ai miei paesi di Lombardia, a branchi e a nuvoli. Vederli sul far della sera giungere in schieramenti compatti, danno l’idea d’un principio di temporale che s’avanza e passa via tranquillo.
Ogni tanto, arrivando su uno stagno o un corso d’acqua, a un cenno dell’anziano che sta alla testa, un gruppo si distacca dall’esercito in marcia e, con un gran gracchiare che par un brontolare, librandosi in ruote concentriche, calano sopra gli alberi e i cespugli della riva, sparpagliandosi un po’ qua e un po’ là per la pianura a passarci i tre mesi d’inverno.
La gente guarda quel gran volamento, e dice con un senso un po’ superstizioso: «Quest’anno la volpe abbaierà dal freddo»; e entra in casa tirandosi dietro l’uscio. È il tempo che le nostre campagne sono sparse delle loro penne perdute nello spollinarsi dopo i lunghi voli, e i ragazzi le raccolgono da adornarsene il cappello come d’una gala.
A me personalmente il corvo è molto simpatico perché arriva da noi nella stagione più povera quando, emigrate le altre famiglie d’uccelli, i cieli si fanno più muti e più attenti sullo squallore delle campagne. Bella forza trovar da vivere quando i campi son pieni d’ogni ben di Dio! E frumento e bacche verdi e il resto è lì a portata di mano o di becco; il bello è adesso che non c’è in giro che stoppie e melicacci, e il mangime uno ha da ingegnarsi a buscarselo. Sicché, per questo suo mescolarsi con l’uomo quando la vita è stentata e meritoria, il corvo io l’ho per un maestro di sobrietà e di serena fiducia nella Provvidenza. Quando Luca ha voluto insinuare questa persuasione, disse proprio così: «Guardate i corvi che non seminano e non mietono, eppure ogni giorno trovano cibo per il loro campamento».
Ma da tutti i tempi pesa sul povero corvo una calunnia di infedeltà, che risalirebbe addirittura a Noé. Per il fatto che, lanciato fuori dall’arca a vedere in che stato fosse la terra dopo il Diluvio, il corvo non torna indietro, cattivi lettori hanno voluto inferire che sia stato infedele. Ma il corvo non torna perché in cima ai monti che già saltavan fuori dall’acque, aveva trovato il suo pane: con questo avvertendo Noè che l’acque s’andavano abbassando. Proprio quel che voleva sapere il gran patriarca; il quale, prendendo la cosa per il suo verso, non gli muove rimprovero; e, se più tardi manda fuori la colomba, non è per riparare a una immaginaria infedeltà del corvo, ma per vedere di quanto ancora s’erano ritirate le acque. La Bibbia, il corvo lo ha sempre onorato, da elevarlo a messaggero degli stessi ordini del Signore. Disse il Signore a Elia nel deserto: «Io ho dato ai corvi ordini relativi al tuo mantenimento». E ogni giorno puntualmente il corvo portava il pane al Profeta, lieto e superbo di tanta commissione. Fossi pittore, vorrei pitturarlo questo quadro grandioso con quattro pennellate veloci: Elia seduto sul ciglio del torrente che si cava la sete; mentre, agitando le ali che tingon l’aria di nero, il corvo arriva col pane nel becco.
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Con l’andare del tempo, il corvo passa dal servizio dei Profeti nella consuetudine dei Santi — i loro grandi parenti — e dei Santi più distinti. A leggere nel Cavalca le vite di quei romiti, senti ogni tanto che l’aria si agita nel vento di un volo: è il nerazzurro uccello che passa e va a portare il suo pasto a taluno — Paolo o Antonio o Pacomio — che vive cercando la faccia di Dio nella solitudine e nella ruminazione dei Salmi. Ce n’è uno che ha la vita tutta segnata dalla sua presenza: Benedetto di Norcia; tanto che il nobile uccello è entrato nello stemma del potentissimo Abbate. Da un corvo, che gli porta via il pane avvelenato mentr’era sul punto di mangiarlo, Benedetto ebbe salva la vita; da un altro gli fu mostrata la via la prima volta che saliva a Montecassino; e poi, ogni volta che si metteva in via, tre corvi gli s’accompagnavano puntualmente a indicargli il cammino. Mi dicono che ancora oggi a Montecassino i corvi sono di casa e, nella selva vicina al monastero ne nidificano ogni anno: naturalmente i discendenti di quegli antichissimi corvi. Sarà, non sarà; ma la leggenda è bella anche oggi.
Finché si arriva a un punto — con Francesco — che il corvo diventa addirittura frate Corvo.
Uscendo dalla tradizione biblica e dalla linea agiografica certamente un po’ ingenua, il corvo ci dà l’impressione di un nobile decaduto. Entra nella favolistica e ci fa un’assai brutta figura: quella del sempliciotto vanitoso, facile a lasciarsi menare pel naso dai lusingamenti della prima volpe che capita. Della qual fama, la maggior responsabilità l’ha Esópo, che ce lo descrisse appollaiato sul ramo d’un albero, prendendo diletto d’un cacio che teneva nel becco; mentre, sotto, postatasi al pedale, la volpe, guardando in su come a un gran maraviglia, gli fa (per farlo cantare) una violinata che è un capolavoro. «Vecchia io sono, e n’ho girati di paesi e di terre di là del mare e di qua, e n’ho vedute di bestie e d’uccelli ornati di svariate bellezze; ma sopra tutti bello mi par questo che mi sta sul capo (e giù una bella riverenza), bello tanto che il suo splendore a momenti mi acceca, e gran diletto e allegrezza mi induce nell’animo. Se il suo canto è di tanta dolcezza quant’è il piacere che dà la sua bellezza, costui è senza dubbio il re degli uccelli...». Furbona d’una volpe! Non poteva trovare una via più sicura per ottenere l’effetto che toccarlo sotto la coda. Sicché il corvo, entrato in succhio e facendo certi atti di capo e di coda, aperse il becco, perdendo il cacio e l’onore. Anche l’onore. Ché la vanità rivelata fu grande veramente; e da quel giorno ogni scalzacane di favolista (da Fedro a La Fontaine) ha avuto buon gioco nello sfogargli contro il suo ironico umore. Né saprei come difenderlo; se non dicendo che quella sua bontà credulona che salta fuori attraverso la favola — bontà capace di riceverlo il male, non di farlo — è, alla fine, il suo più bel titolo di gloria in mezzo a un mondo birbone.
Ma nella letteratura del corvo c’è ancora un momento nel quale egli si redime e s’innalza. Solo che usciamo dalla tradizione favolistica e ci accostiamo alla grande poesia, il corvo riprende un’altra volta il suo compito di messaggero dell’al di là. Ricordate il Corvo di Pöe. Una fredda sera di dicembre, il poeta medita sui volumi della dottrina profonda per consolare il suo dolore recente: egli ha perduto Eleonora, la sua tenera amica Eleonora. Sente un picchietto alla porta; e, pensando che possa essere un pellegrino sperduto nella notte, si alza e va ad aprire. Nessuno. Il vento — pensa il poeta ritornando al suo libro. Poco dopo, un altro picchietto alla finestra. Si rialza prontamente il poeta, nel superstizioso sospetto che sia lo spirito della sua fanciulla che torna a visitarlo. Spalanca la finestra, e con un tumultuoso sbattito d’ali, entra un maestoso corvo, viaggiatore arrivato dalle rive della notte. Sorpreso, il poeta gli getta domande. Sa che resteranno senza risposta: sono, a ogni modo, fatte più a se stesso che a lui. «Corvo, bel corvo, potrò io un giorno rivedere la fanciulla che si chiamava Eleonora, la luminosa fanciulla che ora gli Angeli in cielo chiamano Eleonora?» Ammaestrato a dire una parola sola, il corvo risponde: «Giammai». Spaurito e incuriosito, il superstizioso poeta moltiplica le domande: a cui il corvo risponde la sola parola: «Giammai», quasi avesse calata in essa tutta la sua anima notturna.
È in questa linea carica di mistero che più mi piace contemplare il corvo: il grande uccello di ebano, dalla fisionomia severa, dal portamento imperiale, già portaordini di Dio e familiare ai Santi.
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