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CESARE ANGELINI

IL CAMPO

In C. Angelini, I doni del Signore,
Milano, Bignami, 1970, pp. 59-60.

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campagna Pavese


Pulchritudo agri mecum est.

La cosa viva che è un campo lombardo quando, a settembre, pare tutto colmarsi d’un odore di menta e di trifoglio. Odor agri pleni. Tra fossi che lo cingono di luce silenziosa e alti pioppi che lo proteggono dai venti, è la cosa più biblica che ci resta in un tempo tutto meccanico.
Seminato, custodisce — come grembo di donna — il suo prezioso tesoro. Una parabola esprime il meraviglioso mistero della fecondità del seme che, gettato a terra, resta solo; un poco si spegne nel buio («si le grain ne meurt...»), poi si riaccende nella musica segreta delle forze sotterranee, per uscirne più tardi in fiammoline verdi.
Ha un’intesa col cielo; e il sole, la pioggia, le stelle non sono estranei al suo destino, alla sua responsabilità, che è quella di mantenere la promessa del pane quotidiano. Per questo, il campo soffre un suo dramma; si smagrisce, s’impoverisce, si difende contro l’insidia dell’erbacce, contro la lusinga del loglio, bellissimo e perverso, contro i venti rissosi. Ed è proprio questo suo senso di pericolo che fa del campo una cosa seria, umana.
Noi lo guardiamo con trepidazione, invocando sopra di esso la rugiada della notte e tutta la bontà del cielo: Umida solstitia atque hyemes orate serenas!
Pare un oremus.