CESARE ANGELINI IL GALLO NEL BREVIARIO
In C. Angelini, I doni del Signore,Milano, Bignami, 1970, pp. 29-34.
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Dico degl’inni del Breviario, dove il suo canto è frequente, e rallegra. Talvolta, par d’averlo lì davanti, vivo, in carne e penne, come quando gira in cortile con quell’andatura tondeggiante tra di baronetto provinciale o di atleta che va con fianchi serrati verso il gioco delle parallele.
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Naturalmente gl’inni nei quali egli canta son quelli che si recitano nei Notturni, o ad auroram; l’ora del gallicinio dei romani, presso i quali il gallo era una sorta di istituzione civile, e il suo canto il segnale-orario del tempo. Perciò nei manoscritti antichi questi inni mattutini si intitolavano ad galli cantum. In taluni, il gallo entra solo come fregio, ornamento; in altri, sostiene la parte di protagonista, sia pure nel travestimento del simbolo. In due specialmente entra in pieno e domina: uno è di S. Ambrogio, l’altro è di Prudenzio. Quello ambrosiano è il famoso Aeterne rerum cònditor... Tenetevi pure tutte le odicine d’Arcadia e di qualche altra stagione, e lasciatemi questo inno spazioso e ubertoso, non solo per il suo insegnamento morale ma proprio come invenzione lirica. S’apre con una invocazione all’eterno creatore delle cose che ci dà la varietà delle stagioni e il succedersi della notte e del giorno per nostra ricreazione: rallegrare la vita, che diversamente sarebbe monotona. E anche il canto del gallo è un elemento di piacevole varietà. Ma ha anche altre funzioni.
Se prima è presentato come l’annunziatore della nuova luce con tutta la gioia fisica che porta, poi diventa figura della stessa voce di Cristo che ci sveglia dalla notte del peccato. Sicché il gallo compare come simbolo di vigilanza, specialmente per la santità di cui i cristiani lo hanno avvolto dopo lo spergiuro e la conversione di Pietro, evangelicamente legata al canto del gallo. Suoni lirici e concetti morali s’intrecciano con fortuna, come è sempre della poesia: bellezza che diviene aiuto a vivere.
Nocturna lux viantibus
a nocte noctem ségregans,
praeco diei iam sonat
iubarque solis évocat.
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La strofa (in dimetri giambici, che, quanto al ritmo, corrispondono ai nostri settenari sdruccioli) è tutta un nucleo luminoso, pieno di ardiri moderni. Nel primo verso, è chiaro, il poeta vuol dire che «il gallo fa da guida ai viandanti notturni». Quel suo canto, che sa di cortile e di paese, è conforto a chi viaggia, togliendo alla notte il suo orrore. A me è caro tradurre il nocturna lux più modernamente: canto che illumina la notte. Canto uguale a luce. E direi che è intuizione modernissima, se Dante non avesse già detto qualcosa di simile, e meglio, nel suo Paradiso.
Il secondo verso, c’è da sudare a tradurlo. Bisogna ricordare che gli antichi, considerando il gallo come il loro orologio, gli avevano affidato la cura di segnare puntualmente il cammino del tempo. La notte era divisa in tre parti che avevano per divisore e denominatore il canto del gallo: la prima parte — sulla mezzanotte — era segnata dal primo canto, il gallicinium primum. La seconda, detta conticinium, era il tempo del silenzio e del riposo. L’ultima era segnata dal secondo canto, sul far della mattina, detto senz’altro gallicinium: quando il vigilante uccello avvertiva fedelmente i primi brusii e fruscii della luce.
Ora si capisce meglio il verso, dove si parla del dividere una parte della notte da un’altra parte, segnandone puntualmente le ore, come fa il sole quelle del giorno. E vien voglia di chiederci con Giobbe: — Chi ha dato al gallo tanta intelligenza?
Il terzo verso e il quarto giungono chiari e magici; le sillabe balenano quasi acini di luce:
praeco diei iam sonat
iubarque solis évocat.
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Come a dire: l’araldo del giorno già canta e chiama in cielo la criniera bionda del sole: iubarque solis. Viene in mente Boiardo: «Già vidi uscir da l’onde una matina — il sol, di raggi d’or tutto iubato». È un effetto maestoso, magico: sotto i nostri occhi vediamo il mondo spiegarsi in un’estasi di color varî.
L’inno continua in una animazione entusiastica, enumerando i benèfici effetti di quel canto. Destata dal gallo, la stella del mattino più vivida e svelta risplende nel cielo; la società anonima dei peccatori lascia le vie del male; il navigante trepido si riconforta poiché i flutti si placano; lo spergiuro lava col pianto la sua colpa; l’uomo pio è mosso alla preghiera.
Surgamus ergo strenue!
gallus iacentes excitat
et somnolentos increpat,
gallus negantes arguit.
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Il tono, dolcemente fantastico e remoto che l’inno aveva da principio, qui diventa quasi polemico ed affettuosamente rissoso ma non opaco, anche se i concetti moralistici giustamente prevalgono. I versi conservano agilità e pienezza musicale.
Gallo canente spes redit...
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Cantando il gallo, ogni speranza si avviva; ogni cuor si rallegra. È il momento della rinascita: l’ora in cui la rosa sboccia, il cielo fiorisce la luce che è la veste di Dio, e l’uomo s’illumina del Cristo, luce del mondo.
(Penso alla gioia con cui doveva recitare quest’inno il Petrarca che ogni notte si alzava a dire i Notturni e le Laudi dell’Ufficio Divino, com’egli stesso scrive a Francesco Bruni: «Tu sai come per costume io mi levi sempre dopo mezzanotte a recitare le laudi a Cristo...».)
Più semplice ma non meno festoso è l’altro inno, di Prudenzio: Ales diei nuntius... che si dice (ma non intero) alle Lodi del martedì. Anche lì, fresca aria mattinale; e un gallo che ha ricevuto l’ordine da Dio di annunciare il giorno agli uomini, svegliare i pigri, scuotere gli addormentati. Anche lì, il gallo compare circondato di riverenza, come un elemento di Sacro Mistero, di antica Devozione. E lì specialmente parla per Dio, che parla poco.
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