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CESARE ANGELINI

FANTASIA DI BERGAMO

In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1992, pp. 147-154.

***


Panorama di Bergamo


Il milanese di Milano, quand’è in vista delle ferie estive comincia ad allungare il collo verso Pavia, Como, Bergamo, come a richiami nostalgici, mete delle sue brevi evasioni, dolci provincie e luoghi dei suoi meritati riposi.
E doveva essere certamente un poeta quel cronista che, guardando dal bastione di Porta Orientale verso Bergamo e sentendola tanto vicina alla metropoli, l’ha chiamata con eleganza romantica «il fiore sotto gli occhi». Chissà se sapeva di arieggiare il latino visivo del Petrarca che, nell’autunno del 1359, soggiornando in una villa lungo l’Adda, scriveva a un amico di Forlì: Est hic semper in oculis Pergamum... Ho sempre qui sotto gli occhi Bergamo... E un giorno che invitatovi dall’amico Enrico Capra, orafo eccellente, andò a visitarla, vi fu accolto con grandissimi onori dal Capitano del popolo, dal Podestà, dai cittadini più illustri e da gran folla di gente. Vi si trattenne tutto il giorno e la notte successiva. E il dì dopo, tornato in villa, informò l’amico forlivese dei tanti onori avuti, in una lettera scripta rurali càlamo, ante lucem; scritta con rustica penna, prima di giorno.
E sapete che a Renzo, nella fuga da Milano verso l’Adda, dalla barchetta che lo traghettava all’altra riva, in salvamento, Bergamo gli apparve sulla collina di fronte, come «una gran macchia biancastra». Chiese Renzo: «È Bergamo, quel paese? — la città di Bergamo, rispose il pescatore; terra di San Marco. — Viva San Marco! esclamò Renzo».
Ora, volendo io rendere omaggio con una visita alla terra che, per essere stata poi scelta come dimora definitiva degli sposi non più soltanto promessi, diventò manzoniana, mi preparai l’anima rileggendomi quelle pagine del romanzo dove Bergamo ha un posto cospicuo. Però mi occorrevano anche quelle notizie più spicciole, che aiutano uno a vedere le cose belle che un forestiero cerca in un paese nuovo e, nello stesso tempo, a non fare la figura della prima volta in città. Mi documentai, dunque, leggendo Il fascino di Bergamo di Carlo Traini, il volto di Bergamo, del mio illustre omonimo Luigi Angelini e la Storia di Bergamo del Belotti; il meglio che si possa trovare per conoscere il volto e l’anima della città orobica o città scavata nei monti che sono le Prealpi. Pergamum alpina urbs, la dice ancora il Petrarca; meglio del Foscolo, al quale Bergamo parve un paesuccio. Proprio così: «Bergamo è un bel paesuccio». Ma nell’aprile del 1802, quando ci capitò, il Foscolo era troppo preso dalle bellezze di Antonietta Fagnani, per accorgersi di Bergamo.

La prima cosa che mi venne incontro fu, naturalmente, la sua aria fine, pura, proprio quella che cerca il milanese di Milano, quando ci viene in ferie.
Bergamo, città personalissima, non somiglia a nessun’altra, ha sempre fatto ogni cosa con sapienza: fin da quando, sentito il bisogno di ampliarsi, lasciò sacrosantamente intatta la sua fisionomia antica; e le case e i palazzi nuovi volle che sorgessero ai suoi piedi, creando un primo piano di larghe piazze e di vie comode che le stanno intorno a farle spazio.
Divisa in vecchia e nuova o, come più usa dire, alta e bassa, Bergamo è città che fa scena; l’alta, grecamente detta l’Acròpoli, guarda con piacere la sua nuova dimensione distesa nella pianura; la bassa, modernamente detta il Borgo, guarda in su, l’aerea antenata assunta in cielo. Ciascuna, insomma, ha un suo ufficio e beneficio pratico: l’alta, difendendo le glorie dell’arte e la nobile storia; la bassa, rappresentando la vita che urge nelle sue nuove esigenze e il suo presente; un presente così nobilmente discreto che par già entrato nel passato.
L’eco di questo vivo dialogo, mi pareva di coglierla mentre camminavo sul Sentierone, che è l’ampio viale diventato la passeggiata principale della Bergamo bassa, e raccoglie i palazzi con portici, case con ortaglie, piazze alberate: una urbanistica governata dalla sapienza architettonica del Piacentini, e che porta a guardare in su, senza sbalzi né urti, ma naturalmente, verso il fondale celeste dell’acropoli e dei monti. Chi ha detto che Bergamo non è una città, ma uno scenario dipinto e via via montato sul gusto delle stagioni, tra le quinte delle montagne e la grande platea della pianura, ha trovato una bella immagine e, soprattutto, vera.
E anch’io, guardando in su, verso la Bergamo in trono, mi sorpresi a recitare a voce alta, inconsapevolmente, un sonetto del D’Annunzio alla città del silenzio. «Bergamo, nella prima primavera / ti vidi, al novel tempo del pascore; / parea fiorir Santa Maria Maggiore / di rose, in una cenere leggera / E per l’aer parean volare a schiera / i chérubi fuggiti da Trescore...». Ma io devo dire la verità; cherubini non ne vidi volare in aria, né a schiere né da soli. Piuttosto, in terra, sui marciapiedi puliti dai gran ventagli dei platani, donne si muovevano soavissime, con passi leggeri, che pareva camminassero sull’aria di certe melodie di Donizetti, che era di qui, e non so se ricevessero o esse dessero un senso musicale all’aria, alla città; ch’era poi la città di Lesbia Cidonia. E ricordai la parola di un altro nobile figlio di Bergamo, Antonio Locatelli, l’eroe-poeta, che in una pagina intitolata la serenata dell’usignolo, presenta la sua città «foggiata musicalmente attraverso i secoli». Non nata, dunque, o formata per un disegno pensato, ma per suggerimento dello spirito immanente della stessa terra.

Mentre salivo le mura per giungere in Città alta con l’animo del pellegrino che sale al Santuario, bellissimi nomi di illustri bergamaschi mi facevano ressa nella memoria; e, più che i nomi, i personaggi stessi mi pareva di incontrare: il Tasso, anzi, i Tassi, il Mascheroni, il Colleoni, il Donizetti, il Tiraboschi, il Maj, e altri uomini d’arte, uomini d’armi, uomini di Chiesa, e cardinali e papi, com’è ancora al dì d’oggi; il fiore e l’aroma della terra generosa.
Intanto andavo per strade e passavo per porte che parevano archi gentilizi, dai nomi soavemente veneti, ché per secoli Bergamo fu sotto il dominio della Serenissima: Via Solata, Porta dipinta, Colle aperto, Alto canto...; e le larghe foglie dei platani secolari, che accompagnavano la salita, avevano nell’ottobre colori appassionati, meditativi, mantenendo nel viale un lume chiaro; gli stessi colori che, poco prima, nell’Accademia Carrara, in via San Tommaso, m’avevano empiuto gli occhi, mentre guardavo i quadri di Galgario, del Baschénis e del Piccio. Colori bergamaschi. Veramente «una melodia dolce correva per la città dei Tassi».
Ora, io non vorrei finir male. Ma l’entusiasmo che m’aveva subito preso alla vista della città, continuò a crescere per tutto il giorno, fino a diventare commozione, amore. Né potevo rinunciare di salire al Colle di San Virgilio, che domina la città e le vie delle valli e l’andirivieni dei monti che sotto il sole d’ottobre esultavano e saltavano biblicamente come montoni. Così non potei rifiutare l’invito degli amici a un’agape cordiale alla «Montanina», la trattoria del buon umore; dove tanto mi piacque vedere quei cari bergamaschi mangiare, secondo l’usanza degli avi, polenta e uccelli, il piatto tipico della loro terra; irrorato da frequenti fiaschi di vino che, per un bergamasco, giovane o vecchio che sia, è sempre una cosa seria.