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CESARE ANGELINI

CAPITELLO PER BAALBECK

In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1992, pp. 165-166.

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Baalbeck


Se mi ricordo di Damasco, d’improvviso le mani mi odorano di rose. Ma ora mi ricordo di Baalbeck, dove la bellezza del giorno è tutta nell’aurora.
Arrivarci, dopo aver percorsa quant’è lunga la Siria cava, tra le catene del Libano e dell’Antilibano che guardano la strada delle carovane, la suggestione è enorme. S’ha l’impressione d’essere entrati in una geografia d’oltremondo: il paradiso è da queste parti: forse, qui è la porta.
Baalbeck va vista all’aurora quando scende dal Libano col suo fruscio d’angelo annunciante, che un giorno in questa valle illuminò il volto della Sunamite e ora visita le maestà di queste rovine: costellazioni dilapidate, splendori crollati. Nel presagio della luce, propilei colonne edicole pergole altari sgorgano un lume che risuona sommesso: paion risuscitate, palpitare, sciogliersi in forme virginee con trasparenze di toni incarnati: tornare tempio del Sole, tempio di Giove, tempio di Venere; e la vicina fonte dell’Adonis è un flauto che mena il canto e la danza.
Ma, vinto il gentilissimo stupore dei particolari, la potenza delle rovine che il silenzio fa più grande, fa pensare a un crollo di mitologie e religioni, ad angeli senza paradiso, quasi a un eccidio di dei e di dee.
Rivincita del Dio biblico, che era in principio e ancora vigila e passeggia sulle nevicate vette di queste sue vecchie montagne.