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CESARE ANGELINI

L’AUTUNNO È DI LODI

In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1992, pp. 51-56.

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Paesaggio autunnale nel lodigiano


Qualcuno ha scritto che l’autunno è il colore fondamentale di questa nostra terra lombarda, quasi il suo temperamento psicologico e religioso. E quando il Manzoni ha voluto dare uno sfondo stagionale al suo romanzo, ha scelto l’autunno come quello che meglio aiuta l’interpretazione spirituale del suo mondo e dei suoi personaggi, che è di rassegnati e di umili contenti.
E non importa che il suo sia l’autunno di lassù, tra i monti e il lago. Se mai, a unire quel Nord con la nostra Bassa, c’è proprio l’Adda che entra nella nostra pianura portandovi la vena delle fonti e la frescura delle montagne, con la calma disciplinata che le ha dato il riposo nel lago del Manzoni. Entrato nella pingue terra lodigiana, s’affianca al Lambro torrentizio e capriccioso, e ne diventa il protagonista.
Poche terre danno senso di pinguedine come la piana di Lodi, terra desiderabile, terra egregia, terra che scorre sole e acqua che s’insinua con felice malizia tra campagna e campagna, ornamento e alimento, allegria e vita. O s’incanala in fossi e in rogge che per lunghi tratti accompagnano le strade, due di qua due di là, con una maestà corale. Ingegnoso sistema di irrigazione e di cultura su cui splende ancora l’antica sapienza benedettina che l’ha primamente pensato, ordinato. E per questa ricca presenza d’acqua che favorisce l’opulenza vegetale, e più facile trovarvi i segni e le immagini di un maraviglioso autunno.
Il quale, qui è più sensibile per lo spogliarsi umanissimo degli alberi tutti nostrani che, se in primavera e d’estate, creavano quinte e scenari e immaginarie rappresentazioni e nell’arco scenico parevano essi stessi spettatori partecipi, ora sfondano spazi, muovono solitudini, silenzii, e la terra s’allarga a misura del cielo. Qui veramente l’autunno trova la sua esaltazione nella consuetudine d’ogni forma che pare disabbellire la campagna, in realtà, l’impreziosisce d’un aspetto contemplativo e di quella mestizia che occorre perché la bellezza sia piena.
Come dire che se la primavera le dà un corpo, l’autunno le dà un’anima; e chi cerca lo spirito immanente di questa terra, lo visiti d’autunno, quand’è trasfigurata nell’assunzione delle forme visibili nelle forme invisibili. Allora l’acque, così abbondanti («l’acquosissima Lombardia» ) scorrono più vive e pulite dentro le rogge; nei prati il vecchio verde va via come nota di flauto che s’affievolisce nel vento, e l’umidità favorisce il formarsi della nebbia che, se mangia l’ultime foglie, più somiglia al sogno, dando al paesaggio il segreto fascino d’un velo verecondo di cui la terra si copre nell’atto di spogliarsi.
Sacra ambiguità dell’autunno! che è un morire e nello steso tempo un rifiorire, una promessa di nuova gloria. Perché quel crollo, che è un innegabile fatto di natura, si ricompone in una nuova bellezza, quasi in una grandezza, che si manifesta nello scoppio di mai visti colori, nella conflagrazione di teneri splendori. Le foglie nel patimento estremo s’avvivano di tinte inimitabili, di magie struggenti; cresce e gode la vita dei fiori di campo, e la vite vergine che invade orti e cortili, sfoggia quel paonazzo che torna spesso nei ceramisti della vecchia Lodi. Tutto aiuta a creare quell’incanto che si chiama bellezza, ed è un’allusione alla morte. Forse l’Angelo della stagione ne rallenta la trasmigrazione per finire le sue ultime liturgie che sono un gioco gratuito, e altro scopo non ha se non di creare incantesimo.
È il tempo dei tramonti mirabili... Ne guardavo uno l’altra sera, indugiando intorno alla solitaria chiesa di San Bassiano, l’antica cattedrale con bifore a tutto cielo, presso la quale ha il suo cuore la piana lodigiana. Nuvole alte color miele, color malva, color cenere, andavano e venivano senz’altro impegno che quelle di farsi veder belle mentre erano sostegno all’ultima luce, che pioveva sui campi dove campari d’acque rimasti soli a scolar fossi, si barattavan parole che avevano per eco quel silenzio, quello spazio, quel vento. Purezza di paesaggio da cui nascevano sentimenti di preghiera, di meditazione. Era come se le cose, andandosene via, rivelassero il loro segreto: e la luna, nella notte grande e vicina, appariva sognante e più teneramente manzoniana.
Quasi a dar voce a quella mestizia dolce, anzi a quel piacere d’essere malinconico, mi vennero incontro (se dalla memoria non so o dalle zolle arate) i versi lunghi di una fanciulla che era nativa di lì e poi andò per il mondo avvolta in una sua aria di leggenda zingaresca. I versi ritrovavano molto naturalmente un ritmo largo e popolare. «Nel paese di mia madre v’è un campo quadrato, cinto di gelsi. — Di là da quel campo, altri campi quadrati, cinti di gelsi. — Rogge scorrenti ci sono, fra gli alti argini, dritti — e non si sa dove vanno a finire. — La terra s’allarga a misura del cielo — e non si sa dove vada a finire. — Pioppi e betulle di tremula fronda — accompagnan dell’acque il fluire. — Quando nei rami s’impiglian le stelle — in quella pace vorrei morire».
Era con me Vittorio Beonio-Brocchieri, lodigiano e poeta; e in quel canto che usciva dai solchi, nell’ora che calavano le nebbie, sentimmo gemere tutta la natura, carica di millenarie tristezze; e ogni cosa — il vento e l’acqua, il filo d’erba e la foglia, la stagione e l’ora del tempo — migrare verso un suo patetico destino, irrevocabilmente chiamata ad un giudizio. (Perché anche le cose, dice S. Paolo, quel giorno verranno a testimoniare per noi o contro di noi. E questo ci fa ora più cara la loro compagnia).