CESARE ANGELINI COME D’AUTUNNO...
In C. Angelini, Autunno (e altre stagioni),Padova, Rebellato Editore, 1959, pp. 7-14.
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Con la primavera, con l’estate, muore una stagione. Con l’autunno, muore l’anno, e la sua morte si chiama inverno; quando la terra, lontanissima dal sole, sopravvive come in una regione iperborea.
Nell’attesa, l’Angelo della stagione canta: — Te lucis ante terminum...
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Autunno è un pittore che sta impazzendo coi colori, i quali, come la parola, non sono un divertimento ma un patimento. È un musico che fa l’orecchio più attento alle voci dell’aria, del cielo; crea la disponibilità mistica all’ascolto delle cose superiori. Sappiamo che ha più meriti d’arte che d’invenzione; ma quale artista! Ovunque passa, sotto il suo fiato le cose s’allumano e aureggiano; una povera vigna vendemmiata raggia come la reggia d’Alcinoo, e un campo arato cui orli un filare di gelsi, pare, nel tramonto, un affresco in una cornice d’oro imbronciato.
Più d’ogni altra stagione, Autunno conosce il teorema della bellezza, intesa come consolazione alla sua condizione di morituro.
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Anche quest’anno ho aspettato l’autunno e i suoi giorni squisiti, il suo miele segreto, sfrosato al testamento della defunta estate. Ma queste piogge tetre e perverse, questa digrignante violenza di temporali che persistono, me lo fanno irriconoscibile. Addio belle giornate che parevano arrivarci dal paradiso terrestre, ventilate dall’Angelo della stagione. Basta, rassegnamoci ai voleri del cielo, se proprio sono del cielo.
Però, che cattivo gusto contristare l’autunno in piogge e maltempo il più amabile dei mesi, l’ottobre e la sua finezza fragile, filtrata in aria e luce. Anche il suolo è trasparente, e i raggi del sole, se toccano la terra quando tutto è quieto, dolcemente risuonano. Più pure sono le voci: lo stesso gesto della mano che s’alza nell’aria a indicare, a salutare, vi si stampa come un ricamo. Un saluto scritto nell’aria.
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Ma il proprio dell’autunno è quella mestizia dolce che si respira come un aroma appassito, ed è poi il riflesso della sofferenza in cui entrano le cose nel declinante anno: colori che s’avvivano a forza di patire, come le gote d’un malato ormai visitato dalla morte; foglie che tentano di inseguire l’estremo volo dei passeri, staccandosi dal ramo stupefatto da cui si son già staccate le ali.
E la natura geme, carica di millenarie tristezze.
È il tempo della obliquità dei raggi che fa le nostre ombre lunghe, e noi quasi uomini strani come alberi che camminano. Il disco del sole, a tramonto, si fa piccolo da starci sul palmo d’una mano. E non mi meraviglia più il desiderio di Emily Dikinson: «Portatemi il tramonto in una tazza».
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