CESARE ANGELINI CAVALIERE DI VITTORIO VENETO
In C. Angelini, Il piacere della memoria,Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1977, pp. 9-17.
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M’ha dato meno alla testa (si fa per dire) la proposta di Commendatore della Repubblica comunicatami dal ministro Segni in data 28 maggio 1953, che le insigne di Cavaliere di Vittorio Veneto consegnatemi dal sindaco della mia città il 28 ottobre del 1969. La commenda mi veniva offerta per meriti che stentavo a trovare in me, nel mio comportamento. Insomma, non mi sentivo commendatore, e quel titolo non ce la facevo a portarlo. Il cavaliere invece l’ho accolto con giusta compiacenza come cosa che, modestamente, m’ero meritata con quarantaquattro mesi di servizio militare.
La motivazione tirava a quella della Croce di guerra: «Per aver preso parte al primo conflitto mondiale nell’Arma degli Alpini, sempre in linea sul fronte delle operazioni». A rileggerla, la motivazione ha qualche cosa, qualche tono che cresce. Carte in tavola: all’infuori della Croce di guerra, io non ho avuto nessuna segnalazione per fatti particolarmente esaltanti o esaltati. Non ero nato con un cuor di leone. Ma in guerra si può essere utili anche quando si fa solo compagnia nelle ore del pericolo, o si conforta «il lamento del ferito rimasto solo», con parole di cristiana speranza.
Dunque, cavaliere di Vittorio Veneto. Buona occasione per ricordare alla svelta le tappe del mio servizio: la mia devozione al dovere, i fatti d’arme a cui ho partecipato, gli uomini che ho incontrato, i luoghi che, per esserci stato in quegli anni e con quell’animo, son diventati parte della mia piccola storia privata.
Per la precisione, alle armi io fui chiamato nel marzo del 1916, e il mio primo servizio l’ho prestato come recluta di Sanità ad Alessandria: ginnastica quotidiana, lunghe marce con lo zaino in spalla pieno di carne in scatola, gallette di riserva, pezze da piedi, e qualche libro: il Vangelo, il Fedone... Riempivano il nostro tempo certe lezioni di morale militare.
Dopo due mesi, fui preso in forza da un ospedaletto da campo in partenza per la zona di guerra, località ignota. Dove arrivammo in tradotta, ed era nei pressi di Cormóns, sulla riva destra dell’Iudrio, affluente dell’Isonzo che in quella guerra fu il nostro Giordano, il fiume sacro e solenne.
In attesa di ordini, ci attendammo entro una parentesi d’alberi, attorno a una grande e circolare buca di sabbia, ottimo posto per allogiarvi i diciotto cavalli della salmeria in dotazione dell’ospedaletto. Accade che proprio una delle prime notti un forte temporale ci scatenò addosso un diluvio, che d’improvviso il torrente rovinò, straripò, inghiottendo tutto all’intorno. Usciti dalle tende, spazzate vie, che vista quei diciotto cavalli galleggianti sull’acqua, annegati! Il giorno dopo, il capitano fu impietosamente punito con lo strappo dei gradi in presenza della truppa, per non aver rispettata la consegna di appostarsi sulla riva sinistra (zona di guerra) e non sulla destra (zona di operazione) e noi, cacciati come relitti negli ospedali d’intorno, a Cividale, a Cormóns, San Giovanni di Manzano. Io fui mandato al Contumaciale di Udine, un chilometro fuori città.
Al nuovo capitano del mio reparto che un giorno mi trovò a leggere i Discorsi militari di Giovanni Boine, devo essere parso un soldato di qualche istruzione, e mi nominò caporale. Mi tolse ai pietosi servizi che i «piantoni» di Sanità fanno attorno al letto dei malati e dei feriti, che ogni giorno ne arrivavano da Plava, dal Podgora, dal Calvario, nomi di una tragica passione. Badavo alla pulizia del reparto, alla distribuzione del rancio, talvolta alla paga della cinquina, in aiuto del sergente furiere. Ero o non ero un graduato? Con nuove promozioni in vista...
E proprio il giorno che il capitano Fioravanti in persona comunicava al caporaletto la nomina a caporal maggiore, dall’Ordinariato militare arrivava la nomina a Tenente Cappellano degli Alpini. Con l’agosto del ’17 ero dunque alpino, con un corredo da rinnovare: il cappello, la penna nera, le stellette, la croce rossa, l’alpenstock.
Inviato al Battaglione Sette Comuni a sostituire temporaneamente un collega, cominciai a far conoscenza con le malghe di Énego, con le mine inesplose, coi camminamenti, con le trincee, coi combattenti, gioventù d’ogni estrazione e grado, in cui la realtà della guerra aveva rilevato un genuino sentimento religioso. Passai presto (e ancora provvisorio in sostituzione d’un collega) al Battaglione Bassano, pure del 6° Reggimento, comandato dal maggiore De Cia, un genovese di Finalmarina che, nel nome del dovere, avrebbe portato i suoi uomini a suonare «il silenzio» all’inferno. Dico delle azioni da lui dirette sull’Altipiano d’Asiago, al Sisemol, alle Melette di Gallio, nomi rimasti nei Bollettini di guerra, operazioni affrontate con semplice umanità da quegli alpini che erano lì del luogo. E un giorno, guardando in giù dalle Melette, indicavano il campanile, la chiesetta, il cimitero della loro parrocchia, e quasi le loro case. Per loro, che fin da ragazzi avevano sognato di fare l’alpino, quello era un combattere per il paese, per il focolare. Pro aris et focis, come dicevano i nostri padri romani.
Ricordo l’aspro attacco del Sisemol, e ho ancora nelle narici l’odore acre del cognac che, mezz’ora prima, girando per la trincea, il sergente distribuiva ai soldati perché prendessero coraggio — poveri figlioli — a uccidere e a farsi uccidere. Dopo il combattimento, scendemmo a riposo nelle retrovie di Val Franzèla, tra Valstagna e Sarsón, lungo il Brenta. Riposo breve; perché quasi subito venne l’ordine di tornare in linea, sul Badenéche. Passando per Oliero, paese sotto il tiro dell’Artiglieria, vedemmo quella popolazione a cui era stato dato l’ordine di sgombrare, correre in massa al campo santo ad accendere un lume sulle tombe, portandosi dietro una manata di quella terra impregnata delle ossa dei loro morti. Né ho mai più visto un rito così intensamente sacro; ogni tomba diveniva un rustico altare.
Il giorno dopo (mi pare il 4 dicembre) ci fu l’attacco che, cominciato al primo mattino, durò con alterne vicende fino alle prime ore del pomeriggio; quando, per un cedimento dell’ala destra tenuta dalla fanteria, su ordine del colonnello Scandolara che comandava la zona da una vicina baracca, ci ritirammo per non essere accerchiati e fatti prigionieri. Una fuga precipitosa, inseguiti dalla rabbia delle mitragliatrici nemiche. Voltandomi indietro a guardare quello che abbandonavamo, e i morti e le loro cose, il monte gemeva come un immenso de profundis.
Presso Campese, il maggiore ci contò, al primo lume di luna che batteva sui lucenti elmetti. All’appello molti non risposero: morti o prigionieri; e gli altri, tutti, avevano visto la morte a due passi, a un passo. Se un giorno dovessi descrivere il finimondo, mi ricorderei di quel pomeriggio spettrale, di quel caos diabolico, quando pareva che non solo le bocche da fuoco ma i monti stessi ci cadessero addosso.
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Nel gennaio del ’18, fui trasferito all’«Intra», del 4°, in Val Braulio, sotto lo Stelvio. Il Battaglione che s’era coperto di gloria sul Pasubio con ripetute decimazioni, era lì a difendere i confini, quella maestosa catena di vette sopra i tremila metri, quasi non più terrestri. Difesa dei piccoli posti avanzati, tenuti da pattuglie di arditi comandanti dai tenenti Bariani e Pelandini con uscite nelle notti di tormenta per verificare il «ta-pum» dei cecchini, dallo Stelvio allo Scorluzzo.
Nemico sempre presente, erano le valanghe; e parecchi ne ho aiutato a seppellire piamente nel piccolo cimitero di San Ranieri, tra la terza e la quarta cantoniera. In complesso, un fronte tranquillo, da concederci l’incontro con amici di altri reparti affiancati; con Tommaso Gallarati Scotti del «Val d’Orco», che li ricorda nel suo volume Interpretazioni e memorie; e con Carlo Linati, tenente del Genio.
Dopo l’armistizio (4 novembre ’18) il Battaglione fu mandato in Alto Tirolo, tra Landeck e Innsbruck a prendere possesso di quelle terre. Buona occasione per conoscere quella gente umiliata dalla sconfitta e irrimediabilmente austriaca; quei paesi lungo l’Inn (Zams, Fliess, Ried) piantati sul ghiaccio e tra gli abeti, scampanellanti di slitte tirate da grossi cani militarizzati.
E il I° maggio del ’19, ordine di partenza per l’Albania, con sbarco ad Antivari; dove il primo nemico che ci venne incontro fu la malaria, che ne portò via parecchi. Il secondo, e più subdolo, i serbi-montegrini che, mal sopportando la nostra presenza, preparavano frequenti imboscate contro i nostri distaccamenti dalle parti di Scutari e lungo il Drin.
In Albania, dove con l’aiuto del Muftì ho imparato a leggere il Corano in chiave ecumenica, stetti fino al 28 ottobre del ’19, quando ebbi il congedo, firmato dal Comandante del Battaglione, allora capitano Amedeo Frati, soldato di carriera tagliato nella stoffa dei comandanti; e che, fatta anche la seconda guerra, ora, ultraottantenne e Generale di divisione a riposo, vive nella sua Parma, con un mucchietto di medaglie al valore, testimonianze di operazioni che si perdono nella lunga memoria e nell’albo della Patria.
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