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MASSIMO MARCOCCHI

UN RICORDO DI CESARE ANGELINI

In AA.VV., Nuovo bollettino borromaico N. 25,
Pavia, Associazione Alunni dell’Almo Collegio
Borromeo, novembre 1996, pp. 11-12.

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Angelini in lettura
alla «finestra dei gelsomini»
All’Almo Collegio Borromeo, 1958

 Fotografia di Luisa Bianchi 


Offro la breve testimonianza che mi è stata richiesta, rispondendo alla domanda: che cosa ha insegnato Cesare Angelini, rettore di questo Borromeo, a me, suo alunno negli anni tra il 1949 e il 1953? Raccolgo la mia testimonianza intorno a due punti.
I. Una grande lezione di civiltà ho appreso in Borromeo, vera «casa della sapienza», per usare le parole del Vasari, che Angelini spesso citava. Angelini concepiva la civiltà borromaica come un modo di sentire e di vivere, fatto di armonia interiore, garbo, senso della misura, bellezza, libertà illuminata dalla responsabilità, umiltà che «non è rinuncia, ma comprensione, un più di umanità». La civiltà borromaica, secondo Angelini, si trasmette di generazione in generazione e costruisce, sostanzia, nutre una tradizione. A costruire questa civiltà concorrevano, per Angelini, la lezione dell’umanesimo e del cristianesimo. Chi appartiene alla mia generazione ha sentito ripetere da Angelini le parole dell’umanista veneziano Ermolao Barbaro: «Conosco due padroni, Cristo e le lettere». Angelini ha amato la bellezza e ha concepito e vissuto il cristianesimo come bellezza. Ha incarnato un cristianesimo gentile, fatto di eleganza interiore e di saggezza, sulla linea di quell’umanesimo cristiano in cui si conciliano armoniosamente natura e grazia. Angelini mostrava gratitudine ai maestri del suo seminario perché lo avevano educato alla «bellezza della pietà religiosa» e alla passione della cultura «sentita come dignità e perenne novità della vita». Di mons. Nascimbene, suo predecessore nel rettorato del collegio Borromeo, scrisse: «era memore che Dio è nella cortesia». Angelini, rettore di una comunità in cui vivevano diverse concezioni del mondo, ha rispettato la coscienza di credenti e non credenti. Ha insegnato non la tolleranza (tolleranza è parola un po’ sospetta, si tollera ciò che non ci piace), ma il rispetto degli altri, dirò l’amore degli altri. Angelini amava i suoi studenti, come gli scrittori con cui carteggiava o con cui aveva stabilito un intellectuale commercium. Angelini fu l’uomo del «capire» perché possedette in misura straordinaria la capacità di amare. In Borromeo approdarono prestigiosi uomini di cultura, una luminosa societé des ésprits: Flora e Russo, Pancrazi e Montale, Quasimodo, Bacchelli e Anceschi, Rondoni e Carnelutti. Luigi Russo era considerato in quegli anni una specie di Belfagor (lui, spigoloso com’era, non faceva nulla per togliersi di dosso l’odore dello zolfo). Eppure venne in Borromeo. I Saggi di umanismo cristiano, editi tra il 1946 e il 1955, sigillarono, in modo luminoso, questa prospettiva. Angelini vi profuse molte energie e ne fece una rivista dagli ampi orizzonti e dal largo respiro culturale, ben degna della tradizione del collegio Borromeo. Se pensiamo al secondo dopoguerra, tempo di tensioni, di contrapposizioni, di terribili e laceranti scontri ideologici, di guerra fredda, questa lezione di civiltà assunse per la generazione di studenti, che si formò in collegio negli anni Cinquanta, uno straordinario significato. Fermentava in Cesare Angelini l’eredità della tradizione religiosa e culturale lombarda, di Manzoni e di Rosmini, e di un epigono di quella tradizione, Tommaso Gallarati Scotti, uno dei fondatori agli inizi del secolo del “Rinnovamento” la rivista che Angelini ammirava. Un motivo caro a quella tradizione (qualcuno parlerebbe di cattolicesimo liberale, ma Angelini non patisce la rigidezza delle formule) era il primato della coscienza, dei diritti della coscienza.
Angelini è il prete meno clericale che io abbia mai conosciuto. Rettore in pensione, non si stancò mai di ammonire i suo successori: «Non clericalizzate il Collegio». Non sempre Angelini fu capito. E soffrì per certe grettezze e chiusure allignanti nel mondo cattolico.
II. Angelini, rettore del Collegio, ha proposto agli studenti un modello di religiosità che poco concedeva al formalismo e al ritualismo religioso, cioè alla visibilità della identità religiosa, ma che assegnava il primato alla religiosità interiore, radicata nel profondo e vissuta senza durezze dogmatiche. Mi è occorso di scoprire più tardi che questa visione del cristianesimo animava Angelini già nel 1918. Rivela infatti a Giovanni Papini, scrivendogli dalla zona di guerra, la sua «sete di un cristianesimo meno comodo e più necessario, meno plagiario e più esplosivo, meno intellettualistico e più cordiale, meno chiesastico e più aereato, più vergine, più ardente, più commosso, più anarchico, più attuale, più morale, più inquieto, più conquistato, più vivo e vitale, insomma di un cristianesimo più cristiano». Tradusse questa prospettiva in un programma di vita religiosa per gli studenti, improntato a sobrietà e ancorato innanzitutto alla Bibbia e alla liturgia.
(a) Angelini celebrava ogni domenica la Messa nella cappella del Collegio e pronunciava l’omelia, che era costituita dal commento al brano del Vangelo. Ho detto omelia, non predica, perché l’omelia è lettura e meditazione del testo biblico. Il fatto è significativo, se pensiamo che la predicazione negli anni Cinquanta era spesso intrisa di moralismo, onnicomprensiva nei contenuti, scarsamente radicata nella Scrittura. Da Angelini ho imparato ad amare la Bibbia, in particolare i Salmi e i Vangeli.
(b) Angelini affidava a un vescovo la preparazione della Pasqua. Aveva conosciuto splendide figure di vescovi, che erano appartenuti alla chiesa di Pavia o che avevano retto la chiesa di Pavia: Riboldi, Ciceri, che lo aveva ordinato sacerdote nel 1910, Cazzani, che aveva seguito a Cesena, Maffi, Rodolfi. E aveva un alto concetto di vescovo come successore degli Apostoli e rappresentante di Cristo in una chiesa particolare: rappresentante di Cristo, non rappresentante di Roma alla stessa guisa di un prefetto. Proprio perché concepiva la figura del vescovo nella sua ricchezza teologica e spirituale, Angelini attribuì profondo significato alla preparazione pasquale tenuta da un vescovo.
(c) Angelini fu lo straordinario suscitatore e orchestratore dei densi colloqui nel quadriportico o nel parco del Collegio, colloqui che rimangono nitidi nella memoria (cor ad cor loquitur). E fu un ineguagliabile epistolografo, capace attraverso la lettera di stringere, consolidare e rinverdire rapporti, annodare i fili di tante amicizie. Chi scriverà di Angelini amico?
Più la figura di Angelini si allontana nel tempo, più risplende. Il tempo non la ottunde e non la scolora. Credo che sia venuto il momento di sviluppare una riflessione documentata e matura sulla figura del nostro Rettore.