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STEFANO FUGAZZA

«PAREVA UNO SCRICCIOLO»

In “Quaderni del Ticino”, anno II numero 12,
Magenta, gennaio 1983, pp. 51-59.

***


Angelini nel chiostro del Seminario, 1975.

Fotografia di Giuliano Carraro


Singolare per la sua vita, Cesare Angelini era singolare sin dall’aspetto, almeno stando agli ultimi anni, quando chi scrive lo ha, fugacemente, conosciuto. Piccolo e mingherlino, «pareva uno scricciolo», come ha scritto Prezzolini, se non che la persona era innalzata da una gran corona di capelli bianchi, più da musicista che da prete, e dagli occhietti azzurri. Questa era la prima impressione che si aveva davanti a lui. Poi si notavano la cura secolaresca della tonaca, i polsini candidi che spuntavano dalla tonaca, il parlare lento, il lento deliberare le parole. Anche capitava di essere colpiti dal sorriso, apparentemente ironico, ma certo più fondato sulla saggezza che sulla disinvoltura.
Un personaggio come solo la provincia sa (sapeva, forse) creare, rimasto sempre legato a Pavia, ma ugualmente a suo agio nelle vesti del pellegrino in Umbria e in Terrasanta, abitante più nel regno dello spirito che della terra.


«Il gusto d’esser nato contadino»

Per cominciare, Angelini dalla provincia proveniva: era nato ad Albuzzano, a qualche chilometro da Pavia, il 2 agosto 1886, da famiglia contadina, in un mondo rurale antico, santificato dalle fatiche di generazioni, cui lo scrittore si tenne in certo modo fedele, sentendo per tutta la vita, «il gusto d’esser nato contadino». È ad Albuzzano che si forma il sentimento della natura: nella memoria e nel sangue rimangono, dei primi anni, non la povertà e le ristrettezze, ma «la campagna a perdita d’occhio e il tutto cielo e il vento e l’allegria degli alberi».
Dal paese natale il giovane Angelini passò a Pavia per frequentare il seminario, dove era insegnate di lettere monsignor Giovanni Cazzani, un «critico che sarebbe diventato insieme Benedetto Croce e Francesco De Sanctis se lo Spirito Santo non l’avesse fuorviato verso l’amministrazione diocesana». Nel 1910 il Cazzani divenne vescovo di Cesena e Angelini, che proprio quell’anno era stato ordinato sacerdote, lo raggiunse nella cittadina romagnola, rimanendovi cinque anni: «Forse i più meravigliosi anni della mia vita, per incontri di terre, di uomini: la leggenda della mia giovinezza». Anni non facili, ché il Cazzani prese posizione nella lotta tra proprietari e contadini, sostenendo che «il movimento d’ascensione del proletariato non era né socialista, né repubblicano, né cattolico, ma era umano e cristiano».
Ma il soggiorno a Cesena fu determinante soprattutto per l’incontro con Renato Serra, bibliotecario alla Malatestiana, il quale scoprì nel giovane prete «una svagata passioncella per la lettere», e molto lo incoraggiò, sicuro che avrebbe fatto cose «molto buone in questa nostra cara arte».
E certo i presupposti critici serriani, tesi alla ricerca, di là dei valori puramente letterari, di una problematica spirituale, influenzarono profondamente Angelini, che li fece, quasi naturalmente, suoi.
Cominciò così la collaborazione alla “Romagna” e alla “Voce” del De Robertis; in quest’ultima, con due interventi, in difesa del Pascoli e in polemica, addirittura, con Benedetto Croce.
Scoppiata la guerra, Angelini dovette lasciare Cesena per il fronte, e fu prima soldato della sanità e poi cappellano degli del battaglione Intra. Di quegli anni non amava parlare, né ci ha lasciato molte testimonianze (sul Podgora, nel primo anno di guerra, era morto Renato Serra); pure gli accadeva talora di incontrare, in momento di pausa, il tenente Tommaso Gallarati Scotti.
Il Gallarati Scotti, già grande amico del Fogazzaro, era stato, agli inizi del secolo, uno dei protagonisti del Modernismo, il movimento spirituale ansioso d’una Chiesa libera da temporalismi e da formalismi, e aperta a più fecondi contatti religiosi e sociali col mondo, poi solennemente condannato dall’enciclica Pascendi, con strascichi di polemiche e di sofferenze in chi vedeva così bloccata la propria tensione al rinnovamento. Anche Angelini, pur sempre molto rispettoso delle posizioni ufficiali, convinto che talora ci sia più merito nell’obbedire che nel contraddire, dovette avere qualche simpatia per tale movimento, se ha scritto: «Accettate o respinte certe posizioni del “Rinnovamento” (il periodico del Gallarati Scotti, portavoce del Modernismo italiano), non si può negare alla rivista il merito d’aver messo a fuoco problemi vivi della coscienza cattolica contemporanea; e i problemi non si risolvono se prima non si propongono, anche se proporli comporta inevitabili rischi… Nelle lotte dello spirito non ci sono sconfitti; ci sono delle soste per i chiarimenti. Poiché è una delle più belle astuzie della storia servirsi del doloroso travaglio di buona volontà, spesso ribelli per amore, e maturare riforme che possono cambiare la faccia del mondo”. Pure al fronte giungevano ad Angelini le lettere di Giovanni Papini; una, del 1918, annunciava un profondo mutamento spirituale: “Sono sempre stato nel fondo, contro le apparenze, un mistico, ma ora sto diventando e non soltanto per nome un cristiano. E anche i fatti di questi anni mi hanno riportato alla grande scoperta che è nel Vangelo, l’unica, che tutti conoscono e quasi nessuno applica e vive».


Poeti, paesi (e santi)

Finito il conflitto, Angelini tornò nella sua Pavia, come insegnate al Seminario; ma intanto la passioncella per le lettere s’era fatta adulta, e nel 1923 esce a Milano, presso il Convegno editoriali, Il lettore provveduto: «Anima mia… ora è venuto il tempo di agire, di vivere un poco allo sbaraglio e in novitate; di sommovere lo stagno d’accidia che ti fa dolcemente morire… Tempo è di ritrovar fiducia in noi stessi; alla fine, il proprio parere, vale, almeno, più del silenzio».
Dell’anno successivo è Il dono del Manzoni, la prima di una lunga serie di opere dedicate al “gran lombardo”: da Invito al Manzoni del 1936 a Manzoni del 1942, dai Capitoli sul Manzoni del 1966 fino alle Variazioni manzoniane del 1974, passando attraverso il più volte ristampato commento ai Promessi Sposi.
Angelini è stato, più che un critico, un fratello, e un amico del Manzoni; le sue pagine finissime, e felicemente immuni da metodologie critiche di moda (anche se non inconsapevoli dei risultati, ad esempio, della filologia), recuperano e fanno risaltare la grande lezione manzoniana: di stile e di lingua, per il miracoloso esito di un linguaggio “popolare” e libero dai vincoli di Purismi e di Classicismi; e di vita, per il strato etico, per la religiosità evangelica e vigorosa.
Negli stessi anni dei saggi sul Manzoni, appaiono altri interventi su autori prediletti, Foscolo, Monti, Parini, Porta…; e su alcuni contemporanei (Notizie di poeti, del 1942; Cronachette di letteratura contemporanea, del 1970).
Angelini, che visse la sua vocazione sacerdotale senza dogmatismi, come consapevolezza del mistero, e sulla scia appunto del Manzoni, come sensibilità per le opere e i giorni degli umili, ha lasciato molte testimonianze della sua fede, a partire, appunto, da Testimonianze cattoliche del 1929, attraverso Il leggendario dei santi del 1935, Il regno dei Cieli del 1950, Parabole e fatti nel Vangelo del 1955, le traduzioni degli Atti degli Apostoli, del Cantico dei Cantici, dell’Apocalisse (per quest’ultima, con attenzione più alla speranza che alla catastrofe), fino alla Vita di Gesù narrata da sua madre (ma nuova edizione di una Vita di Gesù del 1966).
Da ultimo (ma è un ordine puramente casuale, Angelini amava mescolare i temi; parlare, nello stesso volume, di santi e di paesi) le notazioni sulle persone e sui luoghi, le testimonianze di incontri e di viaggi. Libri di piccola mole, come Carta, penna e calamaio, del 1944, dove è una lode della parola come grande dono del Creatore: «Penso che la gioia maggiore (Dio) l’abbia provata quando chinatosi sulla bocca di lui (l’uomo), gli comunicò il divino privilegio della parola: ché solo allora fu creato l’uomo, e la creazione ebbe l’ultimo tocco, il più delicato e il più stupendo». E subito dopo, l’arguzia: «Quando poi Adamo apprese quali conseguenze stupende avrebbe avuto nei secoli il dono della parola… caduto in ginocchio adorando, stupito e rapito nella visione mirabile, poco mancò che diventasse muto. Ma in quel momento il signore gli mandò incontro Eva, e il pericolo fu scongiurato».
In altri volumetti (pubblicati dai soliti, piccoli editori, Scheiwiller, Bignami), Angelini mostra l’attaccamento ai luoghi della sua memoria e della sua storia. Questa mia Bassa (e altre terre) del 1970 fa rivivere il Pavese dell’infanzia, l’Albuzzano contadina di quando andare in città era un avvenimento; la mitizzata Cesena della giovinezza; altri luoghi capitali dello spirito, Assisi, dove «uno vi giunge e sente di aver trovata una patria; e se, vi morisse, gli parrebbe d’esser sepolto in chiesa»; infine la Palestina di Emmaus e del Giordano. Un altro fortunato libretto, variamente ripubblicato, Viaggio in Pavia, evoca aspetti illustri e quotidiani (ché Pavia è, insieme, città di coronazioni regali e dei pescatori del Borgo) dell’amata città: i vicoli sommersi di nebbia, le torri medievali, le osterie – modeste nell’apparenza, ma che forse hanno ospitato qualche personaggio dei giorni illustri della città, Montaigne o il Foscolo – i mercati, l’acciottolato delle strade, i camini.
Prose, tutte, accomunate dal ruolo privilegiato che vi esercita la memoria. Non a caso una raccoltina postuma porta il titolo Il piacere della memoria: vi si ritrova l’attaccamento alla terra, che è poi la virgiliana divina gloria ruris con, in più, il sentimento cristiano che riempie la campagna di suggestioni evangeliche e viene consentita una rivisitazione di alcune circostanze biografiche dell’autore.
Angelini ha dunque attraversato il Novecento rimanendo fedele a se stesso; la sua prosa è costantemente caratterizzata da un tono colloquiale ma sorvegliatissimo, a metà strada tra una predisposizione a moderate accensioni liriche e la medietà e l’ovvietà dei un linguaggio quotidiano. Sicché agevolmente potremmo far rientrare la sua opera nel novero della cosiddetta prosa d’arte e del frammentismo ma avvertendo che, nel nostro caso, c’è più di un sostrato morale.


Il Borromeo

Nel 1939, alla vigilia della guerra, Angelini divenne rettore del Borromeo, il collegio universitario pavese fondato da San Carlo nel 1561. Quale luogo più perfetto per il magistero angeliniano? Non mancava neppure l’atmosfera manzoniana, ché primo alunno era stato quel Federigo Borromeo, che è il più alto personaggio dei Promessi Sposi.
Si aprì, per l’antico collegio, una stagione straordinaria: Angelini vi rimase per 22 anni, esercitando un magistero «colto, sensibile e liberale» (Caretti), di cui sono testimonianza, in primo luogo, i ricordi degli studenti, di allora, velati da un rimpianto non privo di orgogliosa consapevolezza.
Si ha un’idea della sensibilità di Angelini rettore in questo brano di diario, datato 8 gennaio 1957, e intitolato Avviso a me stesso: «Se non vuoi far fallimento nel governo del Collegio, sii persuaso intimamente che i giovani sono buoni. Potranno sbagliare, di qualunque sbaglio, anche il più antipatico e odioso. Ma lo sbaglio non è sempre colpa… Cattivi sono – o possono essere – solo i vecchi: i giovani no. Perciò, vai piano a punire; o solo a ragion veduta, dopo aver pensato su almeno un giorno».
La vita culturale del collegio si animò come non mai: dal 1946 al 1955, nei difficili anni della ricostruzione, Angelini promosse la pubblicazione dei “Saggi di umanismo cristiano” (nel primo anno con titolo “Quaderni dell’Almo Collegio Borromeo”), un trimestrale rigoroso ed elegante su cui fecero le prime prove molti giovani studiosi che avrebbero raggiunto posti importanti nel mondo della cultura. Basta citare i nomi di alcuni di essi: Giorgio Bàrberi Squarotti, Emilio Bigi, Glauco Cambon, Gianfranco Contini, Giovanni Getto, Dante Isella, Angelo Romanò… La rivista visse veramente all’insegna dell’apertura: vi si esprimevano diverse metodologie critiche: ci si occupava – in quegli anni – del «comunismo come esperienza culturale» o delle Lettere dal carcere di Gramsci; la rubrica dedicata alla recensione dei libri si intitolava “All’insegna della felicità delle Lettere”.
Lo stesso animo liberale Angelini ebbe nell’invitare personalità della cultura al Borromeo, perché parlassero ai giovani; tra gli altri, vennero in quegli anni Riccardo Bacchelli, Achille Compagnoni, Gianfranco Contini, Gabriel Marcel, Filippo Tommaso Marinetti, Eugenio Montale, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Salvatore Quasimodo, Ardengo Soffici, Giuseppe Ungaretti.
E al suo collegio il rettore-scrittore dedicò pagine preziose, in cui veramente la sorveglianza dello stile diventa estrema. Angelini sentiva la bellezza del Borromeo, «Il cantico delle cento colonne abbinate... la perfezione del cortile quadrato che par fatto apposta per incorniciare l’azzurro... il parco e il prato dov’è spesso un’aria stupefatta come fosse appena finita la rappresentazione dell’Aminta o del Pastor fido»; ma anche capiva che tale bellezza, di per sé, sarebbe stata sterile e vuota e che si giustificava soltanto come invito alla perfezione culturale e morale degli studenti borromaici. A Pavia, a visitare il rettore-scrittore, venivano spesso gli amici letterati, Prezzolini, Gallarati Scotti; Piovene ne tracciò un ritratto veritiero in Viaggio in Italia.
Tanta gloria borromaica gli fece nascere forse il sospetto, alla fine, dell’eccesso e della vanitas; e , quando nel 1961, celebrandosi il quarto centenario, il collegio pubblicò un volume commemorativo, Angelini, nel capitolo sui rettori, sintetizzò così la storia del suo rettorato: «DON CESARE ANGELINI: 15 ottobre 1939 – 15 ottobre 1961. Il 10 novembre 1939 con le sue mani piantò in mezzo al giardino una piccola pianta (pinus argentea) che nel giro di 22 anni crebbe armoniosamente».


Via Sant’Invenzio

Lasciata, con molta malinconia, il Collegio, Angelini si ritirò in una casa di via Luigi Porta, all’ombra delle torri medievali, e, qualche anno dopo, in via Sant’Invenzio. Continuò a scrivere, a rivedere, sottoponendoli a un continuo lavoro di miglioramento, i suoi libretti – libretti perché di piccola mole – a mandare i suoi elzeviri al “Corriere della Sera”.
Una consolazione doveva essere rappresentata dalle visite, sempre numerose, di ex studenti del Borromeo (e anche qualche nuovo), e degli amici scrittori.
Capitava che si andasse a trovarlo, nella sua casa di via Sant’Invenzio, che si parlasse con lui di letteratura, di luoghi, di persone; finita la visita, e riusciti in strada, era inevitabile provare un certo stordimento – una leggera vertigine – di fronte al movimento convulso della città.
Spirava difatti dalla sua persona, e dall’ambiente in cui viveva, un’aria d’altri tempi; e sembrava che, grazie a lui, ritornassero epoche in cui le ore, i minuti, scorrendo lenti, e lasciandosi ammirare, avessero più senso più di quanto non ne abbiano oggi. Parlando con lui, si capiva che aveva molto amato la bellezza – di un luogo, di un fiore, di un giro di parole – ma che aveva comunque cercato la verità; e che il suo equilibrio, d’apparenza così candida, era stato raggiunto non senza qualche sofferenza. In quest’ultimo periodo non mancarono i riconoscimenti pubblici: nel 1964 la laurea honoris causa dell’Università di Pavia, nel 1968 il premio Emilio Cecchi e nel 1972 la targa rotariana Jean Giono. Continuava la corrispondenza anche con numerosi interlocutori.
La morte, per Angelini novantenne, arrivò il 27 settembre 1976.
Per molto tempo, Angelini aveva nutrito il desiderio di essere sepolto in Terrasanta – da dove, infatti si potrebbe aspettarsi meglio la Resurrezione finale? – ma poi era prevalso il principio di non creare disturbo a nessuno, e nel testamento lasciò scritto di voler esser inumato a Torre d’Isola, dove il fratello era stato parroco e dove egli stesso, nel primo dopoguerra, aveva esercitato la sua attività pastorale.
Tra le sue carte, insieme ad altri appunti, venne trovata questa preghiera: «Due cose voglio chiedere al Signore per quando sarò morto, per quando sarò chiuso nella mia ultima casa (che, per essere pronunciata bene, ha bisogno di un’altra s). La prima, avere lì accanto, un rivoletto d’acqua (scorre l’acqua sotterranea, saggia, tra le case dei morti) dove poter allungare la mano, ogni tanto, e rinfrescarmela e bagnarmi un poco gli occhi. La seconda, avere un lumicino al quale poter leggere una volta al giorno la pagina di Matteo (il cui Vangelo sarà il mio guanciale) aperta dove si parla della resurrezione dei morti. Per essere pronto alla chiamata della tromba finale».