ANGELO COMINI IL RETTORE DEL COLLEGIO BORROMEO
In A Cesare Angelini. Testimonianze di Angelo Comini,Pavia, Tipografia del Libro, 1986, pp. 29-39.
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Angelini nel giardinodell’Almo Collegio Borromeo, 1957 Fotografia di Luisa Bianchi |
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Sul rapporto tra Cesare Angelini e il Collegio Borromeo sono state coniate varie formule, che paiono particolarmente felici, in quanto rendono il vincolo profondo che lo ha legato all’istituzione di S. Carlo. Si è scritto: «Angelini era in Borromeo ed il Borromeo era in Angelini»; fu inoltre definito creatore di una «civiltà borromaica»: l’humilitas borromaica l’ha interpretato come humanitas. Certamente i ventidue anni del suo rettorato hanno rappresentato una delle stagioni più feconde di questo Collegio.
Arriva al Borromeo dopo una lunga attesa, dopo un prolungato corteggiamento. Già dagli anni venti, dal rettorato di Riboldi, Angelini gravitava nell’orizzonte borromaico, tramite l’amicizia con questo straordinario rettore; nasceva da un’affinità di temperamento e di gusti: ambedue spiriti vivaci, estrosi, liberi, animati da vivi interessi letterari. Degli alunni di Riboldi — ad esaltare le doti — Angelini ha scritto: «ognuno divenne qualcuno», cioè si distinse nella vita e nella professione. Interessante la battuta della sorella del Card. Agostino Riboldi e zia del rettore Leopoldo Riboldi, riferita in una lettera di quest’ultimo ad Angelini: «Qui [...] tu hai due amici, Nascimbene e Angelini. Angelini ti è più vicino, perché siete un po’ matti tutti e due». Quando Riboldi nel ’27 lascia il Borromeo, per ben due volte gli trasmette l’«ordine» di concorrere per il rettorato borromaico: «Mio caro, intesi che tu concorri. Te ne trasmetto l’ordine [...]». E poco dopo: «Questo è il bando, e tu concorri». Angelini non è insensibile alla proposta, come appare anche in una lettera ad Alessandro Casati del 27 giugno 1927: «Illustriss. Signor Senatore, mi risulta positivamente che “la terna” pel Collegio di Pavia è stata presentata al Principe Borromeo proprio questa mattina. Forse un’altra Sua parola in questo momento potrebbe avere molto peso... Mentr’io mi metto rassegnatamente a sfogliare una grossa margherita fiorita stanotte nei chiari orti di Torre d’Isola proprio per me...». Nonostante questi appoggi, Angelini non ha successo, come non l’avrà l’anno dopo, quando il rettorato borromaico diverrà di nuovo vacante. Il suo grande elettore, Riboldi, che aveva lasciato il collegio dopo qualche dissapore con le autorità superiori, forse finiva per essere, al di là delle sue migliori intenzioni, più di ostacolo che di vantaggio. Angelini non manca di manifestare la sua amarezza per questa seconda esclusione, come si può vedere anche da una lettera a Giuseppe De Robertis del 22 maggio ’28. Certamente questo non impedisce che egli continui a lavorare: gli anni venti erano stati assai fecondi per collaborazioni a giornali e riviste; citiamo “Il Popolo Veneto”, “Il Convegno” di Enzo Ferrieri, le riviste dell’Opera Cardinal Ferrari, “La Festa” e “Il Carroccio”. Avevano visto la luce i suoi primi libri Il lettore provveduto (Il Convegno, 1923), Il dono del Manzoni (Vallecchi, 1924), Commenti alle cose (Casa Editrice Alba, 1925). Ora sta lavorando a Testimonianze cattoliche (Artigianelli, 1929) e a Conversazioni sul Vangelo (La Scuola Editrice, 1930). Negli anni immediatamente successivi usciranno I doni del Signore (Grazzini, 1932), La vita di Gesù (Utet, 1933), il leggendario dei santi (Utet, 1935), Invito al Manzoni (La Scuola Editrice, 1936). Sono anche gli anni dei due pellegrinaggi in Terrasanta, che segneranno profondamente la sua spiritualità e la sua attività letteraria: Invito in Terrasanta (Ancora, 1937) e, più tardi, Terrasanta quinto evangelo (Borla, 1959). Durante il rettorato di Mons. Nascimbene (1928 - 1938) almeno due avvenimenti importanti porteranno Angelini in Borromeo: l’incontro di Croce con Venceslao Ivanov (il poeta e filosofo russo ospite in Collegio in quegli anni), e la commemorazione che egli terrà per il Centenario di Federico Borromeo. Nel ’38, con la morte del fratello don Giuseppe, parroco di Torre d’Isola — dove egli pure prestava la sua opera pastorale —, chiede, non senza qualche rimpianto per la prospettiva abbandonata di una vita in un ambiente culturale, di succedergli nella cura della parrocchia. Viene nominato “economo spirituale”, cioè parroco provvisorio. Ma subito dopo — nel ’39 — ecco il rettorato borromaico nuovamente vacante per la rinuncia di Nascimbene. Riboldi, sempre presente, e vigilante, torna alla carica. Il 14 agosto gli scrive: «[...] iersera mi son trovato con Nascimbene. [...] Tu ed io (egli diceva) vogliam bene al Collegio; e non possiamo desiderarci che Angelini — Dunque non a te il Borromeo, ma al Borromeo io auguro il rettore che tu sarai; e sarai tu. Se quel feudo, come tu asserivi, resta idealmente mio, te lo addico [...]». La nomina finalmente avviene; non più per concorso ma per chiamata a motivo di «chiara fama». Eccolo giunto: il signore nel suo palazzo, il principe nel suo castello. Ada Negri, che seguiva con vigile simpatia la vita e l’attività letteraria dell’amico sacerdote, se ne rallegra con lui. Il 24 ottobre gli scrive: «[...] È il posto che vi è dovuto, è la missione alla quale siete portato; per la natura del Vostro spirito, per l’amore che avete per i giovani [...]». E il 29 dello stesso ottobre: «[...] Del Borromeo il poeta siete voi ora. E ben degno [...]». Nonostante i suoi 53 anni, si accinge con entusiasmo giovanile a dare al Collegio un volto nuovo, a creare un nuovo clima, ad aprire porte e finestre ad un’atmosfera più libera e cordiale. In quei mesi incombono sul nostro paese fosche nubi di guerra, ma Angelini, nel suo ottimismo, pensa ad animare culturalmente il Borromeo: ospita per conferenze D’Amico, Marinetti, p. Tacchi-Venturi. Nel dicembre del ’40, già iniziata la guerra, scrive a Giovanni Papini: «[...] vorrei creare un sempre più vivo collegamento tra il Collegio e la città, promovendo conferenze di varia cultura. Quest’anno [...] avrei tanto caro di cominciare con Vostra Eccellenza, e continuare con l’Eccell. Federzoni, Baldini, Cecchi, e, se accetta, Soffici [...]». Ma sarà soltanto una breve luna di miele: il Collegio nell’aprile del ’41 viene requisito come Ospedale Militare e, dopo una breve pausa che consente la regolare apertura nel novembre del ’41, diviene tale di fatto e tale rimarrà fino al febbraio del ’46. Ecco come Angelini ne scrive a Fausto Ardigò nel settembre del ’42: «[...] dal 14 di agosto il Borromeo ospita un po’ di malati. I primi 60 sono giunti dal Policlinico inquadrati e affardellati, che pareva una “marcia sul Collegio”. Giunti qui, naturalmente si sono messi a letto, ricordandosi d’essere malati. Poi sono cresciuti, ora sono diminuiti [...]». Angelini risiede nel Collegio, occupato dalle autorità militari e tiene i contatti con gli alunni dispersi, chi sotto le armi, chi ospite presso il Collegio Ghislieri o presso camere d’affitto. Nel gennaio del ’43 ne scrive in questi termini ad un alunno che prestava il servizio come ufficiale medico in Provenza: «[...] continui a mandare notizie [...] Saprà che il nostro caro Stangalino è stato fatto prigioniero dai russi [non farà più ritorno!, ndr] [...] Ora comincia a preoccuparmi anche Majocchi che, dalla Russia, mi scriveva regolarmente ogni quandici giorni[...] La guerra, caro Gorio. Qui, sempre Ospedale Militare, con circa 200 tra malati e feriti. Noi cerchiamo di tener vivo il Collegio, ritrovandoci tutti almeno due volte la settimana: la Domenica per la Messa e il mercoledì per la S. Vincenzo. E ricordando molto affettuosamente i nostri borromaici sui fronti [...]». In un Collegio senza alunni, nonostante le preoccupazioni sopra citate, Angelini può godere, diciamo così, di un otium che gli consente di attendere alla sua attività letteraria. Nel ’40 pubblica le Opere scelte di Vincenzo Monti (Rizzoli), nel ’42 Notizie di poeti (Le Monnier) e Manzoni (Utet), nel ’44 Carta, penna e calamaio (Garzanti). Certi spazi contemplativi gli consentono di cogliere le suggestioni del palazzo del Pellegrini, dalle quali nasceranno le sue pagine più belle sul Borromeo: Questo Borromeo, Luna sul Borromeo e Piazza Borromeo. Ada Negri aveva visto giusto quando gli aveva scritto che il Borromeo avrebbe trovato in Angelini il suo poeta. Intanto, nell’attesa che la guerra cessi ed il Collegio ritorni alla sua funzione, Angelini ne prepara la ripresa. Pensa ad una rivista, che sia l’espressione della vita culturale del Borromeo; ne delinea il comitato redazionale nelle persone di Gianfranco Contini, Giuseppe Casella e lui stesso per la parte letteraria, Federico Sciacca e Pietro Prini per la parte filosofica, Sergio Steve, Fausto Ardigò e Teresio Olivelli per le scienze politiche e sociali, e infine Pietro Vaccari, Alessandro Cutolo e Carlo Morandi per la parte storica.
La rivista, trimestrale, nascerà nel ’46 con il titolo “Saggi di umanismo cristiano - Quaderni dell’Almo Collegio Borromeo” e coagulerà attorno a sé e ad Angelini (che ne è direttore, redattore e amministratore, ma che si firmerà sempre «segretario di redazione») fino al ’55 (anno in cui fu sospesa) alcuni tra i più bei nomi del mondo letterario e filosofico, soprattutto giovani allora alle prime armi, ma dei quali Angelini aveva intuito il talento, e che in seguito si sarebbero decisamente affermati. Si trattava della realizzazione di un progetto che aveva concepito da vari anni, già dal tempo della pubblicazione di Testimonianze cattoliche (1929), il cui ultimo capitolo suonava così: Programma di una rivista letteraria cattolica. Finalmente può dar seguito al suo programma, invitando per conferenze i nomi più prestigiosi della cultura italiana, specialmente umanistica: Russo, Montale, Messina, Bacchelli, Flora, Quasimodo, Iemolo, Prini, Bo, Fubini, Bargellini, Prezzolini, Gallarati Scotti, oltre ad alcuni studiosi stranieri quali Gabriel Marcel e Daniel Rops. Invitando Manara Valgimigli nel dicembre del ’56 gli scrive «[...] A Pavia troveresti un bel cenacolo di persone oneste, che ti vogliono bene. Oltre a Romagnoli, c’è Caretti, c’è Segre, c’è Emilio Bigi, c’è Maria Corti che insegna (come si conviene a una donna) storia della lingua». Questi rapporti non si limitano alla cultura, ma spesso si sostanziano di vera amicizia, con il rituale invito «a spezzare il pane alla mensa di Carlo e Federico». Allo scopo di alimentare lo spirito borromaico, tiene contatti con una cerchia sempre più vasta di ex-alunni, li riunisce in Collegio e dà vita alla Associazione come prolungamento del Collegio dopo la fine degli studi. I “raduni” degli ex-alunni diventano regolari ad ogni scadenza annuale e rappresentano occasioni per rinsaldare amicizie ed esprimere solidarietà verso il Borromeo.
Ma forse qualcuno si chiederà come si svolse la sua funzione vera di rettore, di educatore dei giovani. Non sembri strana l’affermazione che questa consistette essenzialmente in quanto detto finora. Certamente ha dovuto affrontare anche dei problemi pratici, disciplinari o amministrativi. Di questi ultimi s’intendeva poco e li lasciava volentieri al Consiglio di Amministrazione, del quale ha lamentato talvolta l’eccessiva parsimonia nelle spese “culturali”. Gli altri li affrontava in modo personalissimo ed elegante: molti conoscono il rito del «fiero caffè»: quando un alunno tardava nel rientro serale, lo attendeva nell’androne e lo invitava in rettorato dove gli offriva un caffè da lui stesso preparato, caffè che acquistava un significato morale. Sempre disponibile ad ascoltare chiunque e su qualsiasi problema, anche i più intimi e personali, non osava però entrare di sua iniziativa nel sacrario della coscienza dei giovani. Amava anche discorrere con i giovani, magari passeggiando a lungo sotto il loggiato; ma parlava di quelli che costituivano i suoi interessi letterari e culturali. Il suo influsso educativo consisteva più che in una azione direttamente orientata a una finalità pedagogica, nella testimonianza della sua persona: la sua libertà, la sua umanità, la sua apertura a tante cose belle, insomma la ricchezza della sua personalità. I suoi alunni, anche se talvolta potevano snobbare le iniziative letterarie, ne hanno conservato un ricordo pieno di stima e di affetto.
Anche se spiritualmente giovane — usava invertire le cifre trasformando il numero degli anni da 72 a 27 — gli anni si accumulavano anche sulle sue spalle. Nel giugno del ’59, a 73 anni, scrive all’amico Prezzolini: «[...] persuaso che se talvolta è lecito invecchiare nei luoghi, non è mai lecito invecchiare i luoghi, sto preparando volontariamente la mia partenza da questo Borromeo. So quello che lascio e non so quello che troverò, specialmente per me che son sempre vissuto nella trasparenza d’un versetto evangelico — Guardate gli uccelli dell’aria e i fiori e l’erbe del campo... —». Si tratterà ancora due anni e la sua partenza avverrà alla conclusione dei grandi festeggiamenti per il IV Centenario di fondazione del Collegio. Ecco come l’amico Riboldi gliene scrive la domenica 8 ottobre del ’61: «Caro Angelini, giorno della tua “deposizione della croce”, oggi. Il Borromeo ai Rettori è spesso una croce. Ma ci voleva il folto fausto convegno d’oggi per indorare il tuo tramonto. Anch’esso il tempo, sgombrando la tetraggine di ieri, soleggiò la celebrazione del Borromeo e tua [...]. Unanime, intorno a me, il rimpianto della tua reggenza. [...] Mi fa male immaginare che ti scoroni (da te, beninteso; perché le corone autentiche guai a chi le tocca!) immaginare che ti scoroni dal serto che (parole tue) “abbella l’Humilitas”; mi fa male come se scoperchiassero i tetti del cortile spettacolare; e vi piovesse sopra a infracidire tutto l’edificio materiale e spirituale [...]».
Si chiude così uno dei rettorati più felici e fecondi nella secolare storia del Collegio Borromeo.
Scrivendo la serie dei medaglioncini sui rettori borromaici per il volume celebrativo del IV Centenario, Angelini, dopo aver citato le opere dei suoi predecessori, sintetizza il proprio rettorato con questa immagine garbata e spiritosa: «Don Cesare Angelini: 15 ottobre 1939 - 15 ottobre 1961. Il 10 novembre del 1939 con le sue mani piantò in mezzo al giardino una piccola pianta (pinus argentea) che nel giro di 22 anni crebbe armonosiamente».
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