PIERO CHIARA PASSANDO PER PAVIA
Da “La Fiera Letteraria” del 24 febbraio 1957.
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Piazza Borromeo, anni ’50 Fotografia di Guglielmo Chiolini
Da AA.VV., IV Centenario del Collegio Borromeo di Pavia, Milano, Alfieri & Lacroix, 1961, p. 28. |
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Tutte le volte che visitando Pavia, e andando da una chiesa all’altra, m’è accaduto di passare davanti alla facciata dell’Almo Collegio Borromeo, ho sempre pensato che là dentro, in una stanza a pianterreno piena di libri e di cimeli, c’era Cesare Angelini.
Lo immaginavo come me lo avevano descritto quelli che erano stati almeno una volta a trovarlo. Di entrare e chiedere di lui per conoscerlo, non ho mai avuto l’idea. Mi pareva meglio figurarmelo là dentro, ignaro d’essere pensato da uno che passava davanti al suo collegio, chino sul tavolo, oppure vagante tra le librerie con una sigaretta tra le dita e la zazzera bianca illuminata dalla luce che entrava per la finestra del cortile.
Un ometto più piccolo di me, me l’avevano descritto, ma paludato con sobrietà nella talare, e con una capigliatura ondulata che gli dava un’aria settecentesca, intonata ai mobili e all’ambiente; e l’eterna sigaretta, invece della tabacchiera. Esile, vivace, rapito quando poteva dire: «Amor di poesia».
Così doveva essere l’uomo che aveva scritto di sé: «Vorrei far mio il motto di Ermolao Barbaro, umanista del Quattrocento: Duos angnosco Dominos: Christum et litteras…». E cercavo di immaginare quel che stesse leggendo o scrivendo. Se era un pomeriggio estivo: «… queste ore equilibrate, perfette, questa luce riposata, con tinte segantiniane, che vuol dire estremamente lombarde…». Se era primavera certo scriveva di fiori e del rifiorire eterno della sua Pavia color amaranto.
In quella piazza antica dominata dal Borromeo il tempo pareva attendesse di essere descritto da lui, ora per ora, d’essere capito da lui che sapeva rianimarlo con belle immagini e fiorite metafore: il tempo di Pavia, tutto visibile nelle case, nelle torri, nei nomi delle chiese e delle strade. Un tempo misterioso e profondo che nasconde più di quanto non riveli, nell’ombra di oscure navate, nessuna delle quali (e lo osservò proprio Angelini) è a livello di questa terra dove camminiamo. Quale si sprofonda in basso e quale si alza d’alcuni gradini, pur di stabilire altro piano o una diversa distanza dall’eterno. Quel S. Pietro in Ciel d’Oro, per esempio, che s’inabissa e che sta fra la terra e gli ipogei e dove una notte — nella favola del Boccaccio — prese terra il gran materasso recante Messer Torello che se ne veniva addormentato in volo dall’Egitto per prodigio di negromanzia…
In S. Pietro in Ciel d’Oro entrai una sera, passando per Pavia, e sceso nella cripta, davanti all’urna di Severino sentii come un brivido la possibilità d’altro prodigio, di una fuga negli abissi con un bene impossibile, con un sogno della mente.
Chi non ha provato, a Pavia, queste sensazioni di smarrimento in una prospettiva di tempo senza fine? Ma Angelini ha saputo mettere su quei sepolcri un fiore vivo del sole di oggi, la luce dei nostri giorni ed una nuova, dolce malinconia lombarda di cielo e di pianura.
Sempre, mentre io passavo, Angelini se ne stava nel gran palazzo, seduto al suo tavolo, dentro un seggiolone secentesco, così piccolo e argenteo uomo, con una penna nella mano bianca e una sigaretta che filava il suo fumo controluce, Pensava davvero di fare a ritroso il viaggio di Messer Torello e di andare a finire la vita in Terra Santa per riposare sotto quella lapide che si era dettata con tanta umiltà:
QUI GIACCIONO LE QUATTR’OSSA
DEL POVERO ANGELINI
PELLEGRINO IN TERRA SANTA
Possibile che volesse rinunciare davvero alla terra di Lombardia, alla sua campagna pavese, dopo aver detto che vi si invecchia, sì, ma con grazia, lentamente («S’invecchia, e si muore: ma in silenzio. La sola cosa bella che possiamo invocare intorno alla nostra ultima ora».) Sul suo tavolo intanto ci dovevano essere dei fiori; forse un vaso di peonie di quelle che danno «l’impressione di avere delle fanciulle in casa: luminose, sonore». O altri fiori di un orto che certamente ci sarà dentro il collegio, forse dietro, o in qualche cortile chiuso.
Quando ritornavo a Pavia giravo sempre tanto da capitare in quella piazza e camminavo lungo la facciata del Borromeo, a giusta distanza, per vederla bene d’insieme; e mi piaceva pensare che Cesare Angelini continuava ad essere là dentro, un po’ più argenteo, ma sempre chino a scrivere frammenti, osservazioni, annotazioni, versi ricamati sulla carta con un filo che la sua penna coglie dall’aria. O a leggere i suoi poeti: Manzoni, Leopardi, Foscolo, Monti. Che lui del Borromeo fosse direttore, con molti impegni e con molta responsabilità, non mi passava neppure per il capo. Cos’altro poteva fare Angelini che leggere, levare gli occhi con un’aria estasiata, alzarsi lentamente e andare alla finestra portandosi dietro un bel verso da ripensare o da ridire da solo, a mezza voce, guardando la luce, quasi per vederlo in trasparenza contro il cielo?
Lettore di poesia, è stato definito Angelini: cioè intelletto poetico, capace di intendere i poeti. Non critico, esegeta o studioso di tecniche, ma lettore, delibatore attraverso un filtro di entusiastico amore del linguaggio e della musica che trasfigurano e quasi transustanziano le cose. Belle parole religiose, trasfigurazione e transustanziazione, che egli adoperò proprio per il suo Leopardi.
Ho saputo che nel suo studio c’è un ritratto di Renato Serra, l’amico che fu delizia e sorpresa della sua giovinezza. Lettore come lui, e non critico: letterato che «aveva dell’arte un senso religioso».
Ma quant’altri ricordi confluiscono, da più stagioni letterarie, nello studio di Angelini; e quante direzioni deve conoscere il suo paterno affetto, con tutti i giovani che ha visto uscire dal Borromeo e che ha costantemente seguiti, tenendoseli uniti col legame del cuore e dell’intelligenza! Perciò, passando per la piazza davanti all’Almo Collegio, mi è sempre sembrato di inciampare in tanti fili invisibili che uscivano da quel portone: avevo la sensazione di traversare un flusso.
Angelini è una presenza silenziosa ma insistente, un ricordo vivo e stimolante. Si pensa a lui da molte direzioni; e ci penso anch’io che di persona non l’ho conosciuto mai e che forse non andrò ma a cercarlo oltre quella soglia principesca che mi contento di guardare passando.
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