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CESARE ANGELINI

MI RICORDO DI ALÌ

In C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre),
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1992, pp. 167-171.

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Il Corano di Alì

archivio privato


(Dedicato al
Generale Amedeo Frati,
Comandante del
Battaglione Alpino Intra
in Albania, nell’estate
del 1919).


Anzi, di sua Eccelenza Alì Mohamed Murtezza Karageorgevič, Mutfì di Antivari in Albania e di tutta la sonora regione del Drin. E aggiungiamo pure, imparentato con Sua Altezza Nicola Petrovič, Nobile di Cettigne e Principe del Montenegro.
L’incontro avvenne un giorno di bazar, nell’orto cinto di melograni, fra la sua casa timorata e la Moschea, su, in Antivari vecchia, appena lavata e dilatata da un magnifico temporale. Un servitorello color topo me lo indicò seduto al pedale d’un ulivo, neniando versetti del Corano. Visto il forastiero, Alì ruppe la cantilena, richiuse il libro tenendovi un dito per segno e mi venne incontro portando ripetutamente la destra alla bocca; antichissimo gesto dal quale derivò alle religioni la parola adorare. Poi la allungò porgendomela. Non sentii alcun peso in quella mano usa a voltar pagine sacre e a raccogliersi sul petto in preghiera cinque o più volte al giorno.
Flessibile dentro l’abite molle, Alì metteva in ogni movimento una grazia liturgica, quasi un potere incantatorio; il volto appassito dagli anni e da un tormentato sogno di perfezione, pareva fatto più ovale dalla barba nera e crespa e dal turbante verde-lionato che attestava il pellegrino della mecca.
Alì mi introdusse nella sua casa di scarso mobilio; aperse un cassetto e vi depose il libro, ne aperse un altro e fu come se avesse rotta un’archetta d’unguento, tanto la casa si rischiarò tutta di bellissimo odore. Ne cavò fuori una tasca di cuoio verde con tabacco biondissimo, detto «barba del sultano»; con cartigli arrotolò rapidamente due sigarette, offrendomene una, e ci accoccolammo sul tappeto. (Sul lobulo dell’orecchio sinistro Alì aveva una cisti grossa come un uovo di verdone).
Dette poche parole, una schiavolina portò il caffè in chicchere di porcellana istoriate alla turca. Nel versare, pareva recitasse una Sura del Corano.
Alì parlava italiano con graziosa difficoltà, sbagliando spesso il genere dei nomi e la desinenza degli aggettivi che piluccava dalla memoria con lentezza prudente. Da mezzo secolo custodiva nella città costiera la fedeltà ad Allah e al suo Profeta, difendendola dal contatto degli «occidentali ateisti», che eravamo noi soldati italiani mandati lì a tenere l’ordine, dopo la guerra. Era il turbamento che in quei giorni gli dava un’aria di profeta pugnace. In quanto al resto, mi confidò che gli arem erano scomparsi e casi di poligamia ce n’era solo sei o sette in tutta la città. Quanto mi piacque questo suo bisogno d’ordine morale fra la sua gente.
Dal minareto precipitò lo strillo del muezin che invitava alla terza preghiera, quella d’Abramo. Così rapido e queto fu il movimento di Alì, ch’io lo vidi, faccia a terra, voltato verso oriente. Quando si riscosse, pareva tornato da un colloquio col mistero.
Ne profittai per chiedergli, in ricordo, un Corano, uno di quelli adoperati nei riti.
Alì parve un poco turbarsi. S’allontanò per il corridoio, e dopo un momento tornò con un volume legato in pelle verde. Lo avvolse in una pezza di damasco e me lo diede. Anche questa era una delicatezza. Nessun «infedele» tocca il Corano senza lavarsi prima le mani; ma non parendogli buona creanza invitarmi all’abluzione, aveva messo in pace la sua coscienza avvolgendo il libro in una stoffa che mi evitava il contatto diretto. In compenso, mi fece promettere di mandargli un Vangelo al mio ritorno in Italia. Scambio di libri santi, intesa d’anime davanti al Padre comune, e lontano annuncio di ecumenismo religioso.
Glie lo mandai. Ne fu contento, e me ne scrisse.
Quando passò a miglior vita, qualcuno (ricordando il Tenente Cappellano del Battaglione Alpino «Intra» presente in Antivari nella estate del 1919) s’incaricò di mandarmi la notizia. Fu il 19 maggio 1931 corrispondente all’anno 1360 dell’Egira islamica, come diceva l’annuncio portando in testa le prime parole della Sura 63: «Per la stella, quando tramonta...».
E ieri, rovistando fra le carte vecchie, ho ritrovato il suo biglietto, nel quale, inviandomi la benedizione di Allah clemente e misericordioso, mi invitava a «pregare per lui e per la salvezza dell’anima sua».
Alì, uomo molto civile e di pietà lodatissima, che Allah l’abbia in gloria.


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[Questo scritto apparso per prima volta, con titolo Presento Alì Murteza..., nella rivista “La Festa” del 1 luglio 1928 p.1, è più volte ripreso da A. e incluso in sue successive pubblicazioni fino a Questa mia Bassa (e altre terre), Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1971, pp. 165-169. Da notare che il «bel volume legato in pelle» nella redazione del 1928 diventa «volume in pelle rossa» (colore reale) nella redazione di Carta, penna e calamaio, Milano, Garzanti, 1944, p. 66, per poi mutare in «volume in pelle verde» («come se il colore assumesse i toni simbolici della speranza» afferma Nicoletta Leone) in Questa mia Bassa (e altre terre), 1971, p. 168.]