|
CESARE ANGELINI ROMA, AL VENTICINQUESIMO GIUBILEO
***
Roma, in un affettuoso abbraccio con Paolo VI (Papa Montini) nel cortile di S. Damaso 2 aprile 1975
Così don Piero Angelini, nipote di Angelini, in un ricordo dello zio del 3 luglio 1977:
«Cesare Angelini era legato al Papa da una cordiale amicizia. Il Papa ammirava Angelini. Aveva per lui una specie di venerazione.
Nel 1975 Cesare Angelini va a Roma con i Borromaici e il loro rettore don Angelo Comini. Il Papa vede subito Angelini, lo chiama sul palco vicino a se; qualcuno scatta una fotografia mentre avviene un affettuoso abbraccio tra Paolo VI e Cesare Angelini. Vedi quella fotografia... e non sai chi dei due è il più felice; se Cesare Angelini nell’abbracciare il Papa o il Papa nell’abbracciare Cesare Angelini; sono felici tutti e due...»
|
|
***
Le parole con le quali Paolo VI lo accoglie:
«Abbiamo poi un personaggio, ma quello lo presenteremo alla fine, che merita la nostra ammirazione e la nostra simpatia: è monsignor Cesare Angelini di Pavia che siamo felici felici di vedere qui presente, per tutto quello che egli rappresenta, per la sua cultura, specialmente per l’onore e per il gusto che ci ha procurato di conoscere come si deve il Manzoni, vero? È il manzoniano più caro e più bravo. E poi l’abbiamo conosciuto quando era a Pavia rettore del collegio Borromeo, abbiamo sempre letto con grande piacere i suoi articoli, una volta chiamavano strapaese lo stile semplice e liquido e trasparente, e (noi) invece lo chiamiamo aristocratico e tanto bello e tanto moderno. Gli vogliamo molto bene e siamo lieti di benedirlo proprio adesso come pellegrino, vale a dire come confratello con cui ci si incontra non soltanto fisicamente, ma spiritualmente.»
Paolo VI accoglie Angelini a Roma. Cortile di S. Damaso, 2 Aprile 1975.
Documento audio (1 min. e 30 sec.) |
|
Si tratta della registrazione delle parole che Papa Paolo VI rivolse a monsignor Angelini, ricevendolo in udienza. Le parole di Paolo VI, così vibranti di amore e di tenerezza, e il calore e la gioia che le pervadono, fanno ben capire in quale considerazione e venerazione monsignor Angelini fosse tenuto da un Pontefice di incommensurabile grandezza e di grande santità personale. Ed è documento importante anche per lumeggiare la personalità di Papa Montini e l’affetto tenacissimo che lo legava alla sua terra di Lombardia. La sua è, tra l’altro, anche la gioia del sacerdote lombardo cui è capitato di diventare Papa (uso le parole che spesso usava Paolo VI) che incontra un altro sacedote lombardo il quale attraverso i suoi scritti è divenuto simbolo di quella terra amata e ormai lontana. Sembra quasi di assistere all’incontro di Virgilio e Sordello: «“O Mantovano, io son Sordello / de la tua terra!” E l’un l’altro abbracciavar» (Purgatorio VI, 74-75).
Gian Paolo Nardoianni
***
DAL DIARIO
Aprile 75 (Anno santo)
I. Partenza — con d.[on] Comini e Attilio De Paoli — per Roma, all’acquisto del Giubileo dell’Anno Santo, portando in cuore tutti i miei morti e i miei vivi.
«Proficiamus in pace».
Si arriva a Roma (dopo una visita al Duomo di Orvieto) sulla sera. Alloggiamo all’Albergo Moderno in via Minghetti. Tutto bene.
«Civis romanus sum».
2 aprile. Ascolto la Messa e faccio la Comunione in S. Pietro, la Basilica del Giubileo. In mattinata: Udienza del Papa, nel Cortile di S. Damaso. Nel pomeriggio: Udienza del Presidente Leone. Telef.[onato] a Rita.
3 aprile. Partenza per Assisi. Arrivo alla sera. Ascolto la Messa e faccio la Comunione in S. Francesco. Alloggio al Giotto. Tutto bene.
4 aprile. Concelebro la Messa in S. Francesco con d.[on] Comini. Visita a d.[on] Giovanni Rossi; a S. Damiano, a Santa Maria degli Angeli. «Pax et bonum».
Partenza per Pavia. Arrivo sulla sera in via S. Invenzio. Tutto bene. «Laudato sii, mio Signore...».
***
Riportiamo la Lettera al Papa che A. pubblica nel febbraio 1971.
CESARE ANGELINI LETTERA AL PAPA
“Corriere della Sera”, 24 febbraio 1971, p. 3.
Santità,
una logica scritta in Cielo, otto anni fa, ispirò il Vostro predecessore a indire il Concilio Vaticano II per un coraggioso esame di coscienza della Chiesa innanzi al mondo. Disse Papa Giovanni: «È parso allo Spirito Santo e a noi...». E, rimboccatesi le maniche, si mise al lavoro. Chi dei due abbia rischiato di più nella faticosa iniziativa, non lo so; ma che il Concilio fosse cosa ispirata, ce ne accorgemmo tutti per quell’ansia di risveglio, di speranze scoppiate nell’aria e nei cuori. A qualcuno parve che fossero riaccesi i fuochi della Pentecoste.
Il Concilio voleva essere anche il recupero di un tempo perduto? La revisione animosa di momenti e movimenti spirituali lasciati indietro nella storia come delle lacerazioni e ferite non chiuse? Sapendo che la Chiesa è per definizione colei che non ha fretta, ci limitiamo a porre la domanda. Ma noi siamo, purtroppo, abbastanza avanti negli anni per non aver visto coi nostri occhi come fini quel movimento di fedi generose che nel primo decennio del secolo cercò di rispondere alle legittime esigenze d’una generazione in fermento di rinnovamento... La cronaca della «rissa cattolica» detta modernismo, è sui giornali del tempo; ma negli animi ne durò a lungo il ricordo increscioso, con strascico di dolorose separazioni e rancori sospetti, non certo utili alla pace delle coscienze né alla chiarezza della verità che, sequestrata a uso di pochi, parve più divisa che condivisa.
Santità, so di buon luogo (e se nominassi il Cardinal Bevilacqua, qualche cosa si rallegrerebbe dentro di Voi) che, da seminarista amico dei buoni studi umanistici e teologici, anche Voi nei conviviali colloqui del Seminario romano, sognavate di riformare la Chiesa, mai perfetta e sempre perfettibile nel suo elemento umano. D’altra parte, il cristiano cattolico che, vivendo sinceramente la sua Fede, non ha mai sognato di migliorare la Chiesa, non è mai stato un cattolico cristiano.
La cosa dev’essere piaciuta allo Spirito Santo, l’anima della Chiesa, che, al momento buono, Vi ha preso in parola e Vi ha scelto come successore di Papa Giovanni, raccomandandovi la difficile eredità, e i suoi scogli e i suoi rischi. Di lui si diceva: «Venne un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni...», mettendo l’accento sul nome in cui era spiritualmente presente la qualità dell’uomo: mente piena di verità, cuore pieno di carità. Voi sceglieste di chiamarVi col nome dell’Apostolo «viaggiatore», Paolo, l’organizzatore della Chiesa per vocazione celeste che uscendo coi suoi viaggi e messaggi dai limiti brevi della Palestina e dal legalismo mosaico, creò la parrocchia mediterranea o del mondo allora conosciuto.
Con questo nome carico di stimolo e di spazio avete aiutata la spinta rivoluzionaria, favorendola e frenandola con graduali e non timide riforme, attraverso le Encicliche e le Lettere pastorali che, mentre salvano il sacro del mondo, ampliano il respiro sulla vita morale più umanamente sentita; allargando il sentimento religioso instaurando un nuovo linguaggio, una Teologia che non parla solo di Dio, che è preghiera e atto di Fede.
Gettando un ponte sul mondo, avete aperto un dialogo ecumenico coi fratelli separati — riformati e ortodossi — e, tenendo conto più di quello che ci unisce di quello che ci divide, avete risolto malintesi vecchi di secoli; resa giustizia a nazioni e a personaggi che l’aspettavano, e agli Ebrei e a Galileo; confessando umilmente che anche la Chiesa, divina e imperfetta, può sbagliare. Dice che il costume è cambiato nello stile della Chiesa; alle posizioni rigide ha sostituito la discussione cordiale, all’esorcismo lo spirito di comprensione, il rispetto della coscienza che è la cosa più cristiana. Tutto un recupero evangelico, un incontro di fratelli riconosciutisi nella più aperta lettura del libro che dà la speranza anche a chi non ha la Fede.
A far più visibile il dialogo ecumenico, vennero i viaggi quasi visite pastorali che, partendo dalle rive del «Tevere più largo», giungono alle più lontane terre del mondo. Ed era giusto che il primo fosse alle rive del Giordano, il fiume che vide nascere la Chiesa; e il gesto nuovissimo parve al mondo cristiano il ritorno di Pietro alle origini, alle pure sorgenti, per trovarvi la carta di identità. Poi, i viaggi nelle Americhe e in Oceania e in Asia, tra religioni diverse ma tra uomini uguali; poiché ovunque sono anime, dovunque dev’essere annunciato il messaggio della salvezza. E nella ecumenicità del dialogo, la Chiesa non cancella se stessa, ma rivela sempre più la propria fisionomia istituzionale, la sua vocazione universale, salvando l’unità nella pluralità.
E lasciatemi anche dire, Santità, che lo stesso concetto di «primato» con l’aria un po’ pesante di monarca assoluto, l’avete pastoralmente recuperato in un primato di servizio, mostrandoci un Papa che non è tanto sopra la Chiesa quanto dentro la Chiesa, come tutti noi, chierici e laici; nell’ampia visione manzoniana dello Spirito che spira su tutti il suo animo rinnovatore. Salva restando quella parte di elezione irrinunciabile dovuta alla investitura del Fondatore divino, che vi fa arbitro tra le diverse sentenze e tendenze.
Così, uscita da una visione liberale e liberante, la Chiesa ci appare ringiovanita, giovane, unicamente la Chiesa, libera dall’equivoco di un potere ambiguo e intesa comunione di cristiani che camminano verso i non cristiani nell’aspirazione di formare l’unico ovile. Chiesa rispondente alle esigenze dell’uomo d’oggi che, nella libertà di coscienza, vi ritrova spontaneamente le certezze di cui ha bisogno, e la speranza che è la Luce sperata.
Naturale che in questo clima di sollecitazioni conciliari e nella liberazione di forze a lungo represse, alcuni Teologi (e preti e cardinali) invochino innovazioni anche più radicali, da parere provocatorie, eversive, e forse sono soltanto un anelito a recuperare certi antichi valori di autenticità cristiana, che è autenticità di servizio. Perciò vorremmo chiamarli i Teologi della speranza, che augurano la liberazione della Chiesa dal peso di un deposito storico di strutture e clientele che quasi non ci consentono più di vedere nel suo volto la trasparenza dello Spirito Santo.
Noi abbiamo dunque molto rispetto delle loro inquietudini che sono, in parte, le nostre. Del resto, il fatto religioso, quando è sincero, è per se stesso inquieto. Quieta, malviva, è solo la Fede geometrica e recitata a memoria dai Teologi della paura.
Certo non possiamo consentire con loro quando parlano di «un’altra Chiesa» da sostituire alla presente «che da tanti secoli soffre combatte e prega»: né accogliere certi loro atteggiamenti impietosamente avversi all’autorità e alla gerarchia, inabolibile in una Chiesa che è di istituzione apostolica e ha l’impegno di custodire nei secoli, non un messaggio «sociale», ma la continuità e la integrità del messaggio della salvezza. Penso cosa sarebbe stato dei fragili germi delle beatitudini in cui è tutta la sostanza e la fragranza dei Vangeli, se Paolo non li avesse salvati chiudendoli nella custodia delle prime strutture ecclesiali. Lasciati soli e indifesi, sarebbero subito bruciati come i fioretti sotto la brina.
E parliamone ancora un poco. Si sente dire e ripetere che la Chiesa dev’essere spoglia di potere, di prestigio, di ricchezza; povera, insomma, e magari ambulante. Per la verità, noi poveri, non ci siamo mai accorti che la Chiesa fosse ricca. Lo stesso obolo di San Pietro è una carità ricevuta e destinata a tornare carità. Ma, a a proposito di spogliazione, mi torna a mente l’apologo dell’uomo e del carciofo. Disse: — lo voglio liberare da queste foglie inutili. Ne strappò una, due, cinque, dieci, fin che non si trovò in mano più nulla. Vide che il carciofo era quell’insieme di foglie protettive del suo interno aroma, del suo cuore.
Si parla di trionfalismo, con richiami fin troppo esibiti alla umiltà di origine della Chiesa. E se trionfalismo c’è, Santità, bisognerà mortificarlo: come in certe stagioni la Liturgia mortifica la porpora nel viola e il viola nel grigio. Intanto, non riusciamo a liberarci dalla suggestione della parabola nella quale Gesù, adombrando il destino del suo Regno («Il mio Regno») parla di granello di senapa «che è la più piccola delle sementi, ma cresce, deve crescere albero trionfale di rami e di foglie perché gli uccelli dell’aria vengano a lui e vi abitino».
Piace, a ogni modo, questo frequente richiamo all’umiltà intesa come virtù cristiana. E ci ricorda che anche la Teologia o cognizione di Dio, come l’altre scienze, progredisce nell’umiltà, che è il punto di vista più giusto per conoscere la verità, o «le cose rivelate ai semplice e nascoste ai sapienti». L’inquietante mistero di queste parole!
Intanto, in questo travaglio di anime, non siamo insensibili al disagio che occupa molti fedeli, vedendo messe in discussione verità ritenute fondamentali, principî irrinunciabili; come se la Chiesa stessa allontanandosi dalla strada tracciata in duemila anni di Fede. E tra le contestazioni e i suggerimenti avventurosi, cercano la parola che ci riconsegni il senso fermo di questo nostro essere cristiani; la chiarezza che ci vuole perché non vadano perduti i fermenti e le forze spirituali che il Concilio ha liberato nel sole. E guardando con fiducia verso la finestra di piazza San Pietro, da dove ogni domenica spiega il Vangelo della speranza il Parroco del Mondo.
***
Il 9 febbraio 1970, Angelini rende omaggio di una copia dei suoi Capitoli sul Manzoni, vecchi e nuovi, Milano, Mondadori, 1969, a Paolo VI, con la seguente dedica autografa:
«A S. S. Papa Paolo VI
ispirato custode e assertore
del messaggio evangelico
e della morale cattolica
il sacerdote Cesare Angelini
consapevole del Suo Sofferto Apostolato
in un mondo che si agita per ritrovarsi
offre con antica fedeltà del figlio
nel nome del Manzoni
interprete sereno
di quei supremi eterni valori.»
|
Il quale gli risponde:
16 febbraio 1970
A Cesare Angelini, nostro Prelato d’onore ed Illustre Uomo di Lettere, Salute!
Non capita a noi sovente che nella valanga della nostra corrispondenza in arrivo noi troviamo una sorpresa così gradita e preziosa, come quella che ci procura il suo volume dei Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi, a noi mandato in omaggio, con una dedica manoscritta tanto cortese e generosa. La ringraziamo vivamente. Fa sempre bene anche a noi, durante le nostre silenziose meditazioni ed in mezzo alle nostre cure assillanti, riaprire il Manzoni, come Ella, delicato ed arguto, ce lo riapre davanti, facendone assaporare non solo le squisite finezze letterarie, ma altresì le recondite profondità umane e cristiane. E noi, che non da ora siamo lieti ed attenti a cotesta eletta arte esploratrice della grande arte manzoniana, ne godiamo oggi di nuovo con ammirata e cordiale riconoscenza.
La ricompensi il Signore, con la nostra benedizione.
Paulus PP VI
[Lettera conservata al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia]
***
Sempre Gian Paolo Nardoianni, da lunghi anni assiduo lettore e devoto estimatore di Angelini, ci riporta questa preziosa testimonianza.
Discorso di Paolo VI ai Dirigenti, Alunni ed ex-Alunni dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia, lunedì, 20 marzo 1967. Angelini era già “rettore emerito”, ma Paolo VI lo ricorda con parole di grande stima e affetto:
«Ma finalmente pensiero e parola si rivolgono al caro e venerato Rettore del Collegio, Mons. Luigi Belloli, che Noi stessi, allora a Milano, cedemmo a così alto e delicato ufficio, quando Monsignor Cesare Angelini, “fama super aethera notus”, sempre da Noi ricordato, lasciò la direzione del Borromeo».
|