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VITTORIO BEONIO-BROCCHIERI

DUE AMICI

In Vittorio Beonio-Brocchieri,
Pigliatemi come sono
(autodenigrazione di un filoso volante)
Milano, Hoepli, 1941, pp. 173-176.

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Vittorio Beonio-Brocchieri

Fotografia di Luisa Bianchi


Avevo due amici; uno lontano era Sige, impiegato in una azienda di Torino: sereno, taciturno, preciso. Stige era fin da allora il tipo perfetto dell’uomo grande che ha fallito al suo destino. Un’aquila allo stato potenziale. Dovendo vivere in un mondo di gente mediocre e grigia, Stige chiudeva in sé un dolore segreto, quello di vedere che altri s’arrampicava sulle scale della carriera e del successo finanziario, mentre egli rimaneva sempre allo stesso punto. Egli mi pareva simile al germoglio di una quercia nobile e potentissima, che non riuscendo a svilupparsi si vedeva soverchiata dalla oltracotanza di erbacce plebee, di miserabili ortiche, di fatui girasoli, di cavolacci dozzinali. E restava in ombra. Ma era sempre sreno e senza rancori: come sono i forti, come sono i grandi.
Con lui mi trovavo di raro. Talvolta stavo molti mesi senza scrivergli una riga. Quando ci si incontrava bastava uno sguardo, un monosillabo, un’allusione, ed era come se ci fossimo detti «ciao» dieci minuti prima. Stige dava all’amicizia il senso della verità magnetica, la polarità della certezza astronomica. Non l’ho mai scoperto in bugia, neppure per fatto minimo. Resta per me come la pietra di paragone nelle mani dell’orefice. Come il meridiano di Greenwich per il calcolo di longitudine.
L’altro amico io voglio chiamarlo Cherubini [Angelini, ndr]. Viveva a Pavia. L’avevo conosciuto molti anni prima per merito di Lux [padre Leopoldo Riboldi, ndr], che ormai stava lontano, votato ad una mistica disciplina. I miei rapporti con Cherubini divennero quotidiani. Egli mi insegnava a scrivere e guardare il mondo con gli occhi della fantasia.
Le nostre lunghe passeggiate, le inesauribili discussioni di letteratura, di vita religiosa, di commento ai classici costituivano per me un nutrimento vitale, una pedagogia interiore. Cherubini fin da quel tempo era un dissipatore nato, un miliardario dello spirito.
La sua ingegnosità letteraria aveva già reso noto il suo vero nome, nella cerchia di un pubblico attentissimo e devoto.
L’arte era qualche cosa di squisito e di popolaresco, di aureo e di dialettale.
I suoi argomenti prediletti erano le liturgie campestri, il latino di Chiesa, le favole stagionali, il commento alle cose gentili rusticane e preziose della terra del mare e del vento. Gli piacevano i classici, i mosaici del trecento, i granai dorati, le cipolle appese al chiodo, le vecchie rilegature, le acque autunnali, le liturgie dei santi, i badili dei fattori, i diademi imperiali, gli occhi verdi delle pecore quando camminano la notte tra l’abbaiare dei mastini. Le nostre passeggiate lungo gli argini dei fiumi erano come navigazioni dello spirito negli spazi che si dilatano tra il ragionamento e la fiaba, ricognizioni immaginifiche tra le maree oceaniche e il moto dei pianeti.
Andavamo in pattuglia nei sentieri che separano le ragioni della natura da quelle del sopramondo, ai confini tra la musica e la follia. Si parlava delle foglie autunnali, di Michelangelo, del rumore che fa la rugiada posandosi sui fili d’erba e dell’Apocalisse.
Fu alla viglia del mio viaggio in Groenlandia che decretammo insieme, durante una lunga passeggiata frumentaria, di riformare i calendari.
E si combinò la «Settimana magica», intesa come un registro rapsodico del mondo e della natura.
Lunedì: destinato alla contemplazione delle acque correnti. Martedì: alla considerazione dei fuochi e dei vulcani. Mercoledì: al culto delle strade, delle cantoniere, dei pellegrini. Giovedì: alla valutazione del mare e delle nubi. Venerdì: allo studio delle montagne, dei castelli e dei guerrieri. Sabato: al culto delle campane, delle guarigioni inattese e della morte serena. Domenica: alla sapienza dell’ozio perfetto e della dissipazione inesausta.
Su questo basso numerato abbiamo tessuto ore, giornate, anni di meraviglioso contrappunto amichevole. Strade di Appennino, piste di campagna, angoli di biblioteca, soffitte di vecchie basiliche sono stati teatro di nostre escursioni letterarie. Se oggi calcolo di aver destinato a queste conversazioni quasi tre lustri della mia vita, ne deduco che gran parte del mio lavoro trae l’impronta di esse. Tanto è vero che entrando con nuovi compiti in una più sensata attività di scrittore, mi sono accorto che devo a quest’amico una specie di acquisizione perenne nei criteri del controllo artistico, nei freni autocritici, nelle spinte immaginative dell’espressione. E quando mi scappa di scrivere canagliescamente (il che spesso succede se sono arrabbiato, affrettato oppure nervoso) sento su di me il rimprovero tacito del suo giudizio di buongustaio, che ha custodia delle parole come di un talismano delicato e prezioso; ed esige che i modi dell’onesto parlare non siano violentati da aggettivazioni sciabolanti, da ruzzoloni immaginativi, da gesticolazioni scamiciate.


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Angelini in un ritratto

di Vittorio Beonio-Brocchieri, 1943


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Vittorio Beonio-Brocchieri ricorda Angelini, il 27 settembre 1977, ad un anno dalla scomparsa. Intervistato a Radio Pavia da Sandro Rizzi.

Per gentile concessione di Nando Azzolini.

Documento audio (17 min. e 16 sec.)

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Così Luigi Santucci in Mercante di stelle eterno adoloscente, da "il Giorno" del 13 marzo 1986 p. 3:

A tali «capricci» automobolistici fu forse viziato da Beonio-Brocchieri quando i due compagni, una sera qualunque a Pavia, «Che ne penseresti» si dicevano «di andare a godere il plenilunio di Piazza San Marco?» E si buttavano sulla rombante Alfa di Brocchieri, a velocità furiosa. «Andavamo — raccontava Angelini — come adolescenti immortali all’appuntamento con quell’innamorata irraggiungibile, la luna...». E, una volta, piombati in una di quelle scorribande sul castello di Canossa e saltati di macchina dopo la folle corsa per adorare Selene veleggiante fra le merlature, qualche paesano si avvicinò circospetto e chiese loro chi fossero. «Mercanti di stelle» scandì Angelini nel vento della notte, senza staccar le pupille dal firmamento.

e Gianfranco Contini in un saggio del 1986:

Il sedentario Angelini si assunse come felice onere l’esplorazione quotidiana e l’ascetica esaltazione della sua città, le cui strade incurve gli s’inflettevano come legni musicali. Il misterioso sedentario in quei tempi lontani lo si vedeva impegnato in passeggiate interminabili con un compagno antitetico, robusto e moreno per quanto egli era breve e di criniera bionda, noto, più che per una cattedra gestita a Scienze politiche, per arditi viaggi aerei solitari, di cui forniva rendiconti al giornale per definizione (una mia intrinseca congiunta, che era patrizia di Lodi, mi assicurava che era d’insigne famiglia lodigiana). Di che cosa si nutrivano quegli eterni passeggiari?, si chiedeva la curiosità della kleine Stadt col fiato sospeso. Letteratura no, perché il viaggiatore era fortemente acculturato, ma non gli era stato impartito il dono dello stile (merito di Angelini era peraltro quello di non frequentare il monopolio dell’avanguardia). Forse il cittadino ragguagliava l’amico delle sue ultime scoperte nel suo ecosistema, e a sua volta viveva nelle parole le esoticità che si era rifiutate nel reale.