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CESARE ANGELINI

GENNAIO

In C. Angelini, Commenti alle cose,
Milano, Casa Editrice Alba, 1925, pp. 9-11.


***

Dissennato Gennaio della mia terra lombarda, io non riesco più a riconciliarmi con te. Dov’è mai la tua virtù d’un tempo, e quella rigida forza che ti rendeva temuto e nominato fra i dodici custodi delle Stagioni? Dove son più quell’abitudini d’eroiche nevicate, di freddi aspri e compatti, di attoniti cieli gelati? Da troppi anni, ahimé, più non mi riappari nella tua cornice classica di neve, ch’era pur la tua delicata ricchezza e il tuo gran vantamento; sicché il pittore aveva buon gioco nel figurarti bianco e intabarrato camminatore per le vie del mondo.
Dissennato Gennaio, io proprio non ti riconosco più.
Questa è bene la vigilia dei Re Magi, e su la terra sempre nera passa, come in un marzo malato, il fiato dolco di un falso scirocco. Mia sorella Maria si fa su l’uscio, sguarda il cielo basso e ammollito d’inutile nebbia, poi dice sospirosa: «Neppur quest’anno è sul nevicare». Tristezza di codeste parole! Non mi par più bello nemmeno il volto del fuoco; è come se qualcuno fosse venuto a dirmi malinconicamente che non torna più l’ordine nel mondo. Poiché questo, conveniamone, è uno sconcerto bell’e buono; è una partita fallita nella disciplina liturgica delle Stagioni. Le stelle dunque e i pianeti più non seguon le medesime vie? e le nuvole e il vento non fan più volentieri il loro mestiere?

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Penso ai gennai della mia fanciullezza povera e lontana, a quei gennaroni (s’era nell’altro secolo) che il cielo si metteva giù puntuale a nevicare il lunedì mattina per tempo e la durava, ininterrotto e senza vento, fino al sabato sera: come un buon operaio che volesse ben colma di lavoro la sua settimana. Sicché i Re Magi, ogni anno, dalle lor solitudini arrivavano stanchi al presepio del mio paese, tra montagne di neve e coi ghiaccioli alle barbe solenni. Austeri gennaroni, come mi riapparite paurosi e gloriosi e quasi con con aria di antichissimi miti! Le acque scorrevano cristallente nei fossi e a un tratto, ecco, s’incantavano e non scorrevano più; una fila di corvi rigavan l’attonito cielo e a un tratto, ecco, non volavano più; i contadini alla campagna spingevan la vanga nel terreno e a un tratto, ecco, le mani cascavan dal manico e la vanga non uscivane più. E che spari secchissimi s’udivan nell’aria detersa, spaurendo le tortore e i tordi per scoppi di schioppi nascosti; e invece erano roveri e pioppi che, impazziti, crepavan dal gelo. Sicché la sera, riparando nelle fumide stalle di questa mia Bassa, i reggitori lungobarbati (i nostri padri, alla fine) accanto alle lor donne che filavano in circolo, ricordavano Napoleone in Mosca e i suoi soldati che dal freddo gli cascavan le orecchie; e alcuno contava d’aver sentito la golpe abbaiar come fa il cane. Poi, accesa la pipa di ràdica, godevano in cuore; ché sotto l’altissima neve ben sapevano che tutta la natura era pane.
Allora, diciamolo pure, allora c’era fin più gusto a vivere su questa terra che per tutta una stagione sapeva solennemente vestirsi di bianco; e la neve — ch’ora è solo una dote e un privilegio dei monti — ricca com’era di apparizioni fantastiche e di silenziosi rilievi, era pure un bel miracolo; l’ultimo, forse, di questo vecchissimo mondo oramai troppo povero e spoglio di incantamenti e magie.




Testo estratto da:

CESARE ANGELINI

«LA ALLEGREZZA DEL CAMINETTO»

In C. Angelini, I doni del Signore,
Milano, 1970, pp. 47-50, cit. p. 49.


Ma più vivi nella memoria, o vecchio focolare della mia casa natale, dove mi rivedo magro contadinello accanto alla buon’anima di mio padre — tipo di biondo fattore — leggermente inchinato non senza una sua maestà sul paiolo, aspettando che l’acqua levasse il bollore; mentre mia madre con un trepìcchio giocondo che le scoteva la florida persona, stacciava nella madia la farina dell’ultimo raccolto.
Ed ecco che, in virtù del focolare, oggi mi si rivela intero il commosso paese che crea dietro di me la pulita povertà de’ miei natali, e il ricordo de’ miei vecchi, ben piantata razza di campari in giro tutta la notte a custodir acque allagate di luna.
Ma con la lampada ad olio, col pane fatto in casa, con la camicia cucita a mano, è scomparso anche il focolare. Stufe, termosifoni, caloriferi, fornelli elettrici (Dio mi perdoni se nomino tutte queste cose), l’hanno ovunque sostituito. Siamo rimasti in pochi ad amarlo con fedeltà, il vecchio focolare, e a sentire la potenza religiosa sull’anima; pochi uomini irrimediabilmente casti e casalinghi.




Testo estratto da:

CESARE ANGELINI

PER SAN GIOVANNI

In C. Angelini, Santi e poeti (e paesi),
Milano, Già Romolo Ghirlanda,
1939, pp. 38-43, cit. p. 38.


Il 24 giugno quando si miete il grano, e a giorni lunghissimi come stagioni succedono sere che son tutte uno spalpebramento di lucciole e stelle, èccolo arrivare lui, Giovanni detto il Battista.
[...]
In Lombardia lo accolgono belle costumanze. La mattina del suo giorno la gente usa alzarsi per tempo e scendere a piedi nudi nell’orto o nel prato dietro casa a prendere la rugiada, perché il bagno è benefico contro più di un malanno. La buon’anima di mia madre fin dalla sera prima tirava nell’orto la corda del bucato; al mattino, nell’ora della rugiada, vi stendeva lenzuola e camicie di bella tela casalinga, perché se ne imbevessero, lasciandoli poi tesi ad asciugare al sole che il dì di San Giovanni ha un servizio garantito. Ed è un peccato che, pur nelle nostre campagne, le quali sono il serbatoio della freschezza spirituale, pochi sian rimasti fedeli a queste tradizioni.




Testo estratto da:

CESARE ANGELINI

SANTO D’OTTOBRE

In C. Angelini, Santi e poeti (e paesi),
Milano, Già Romolo Ghirlanda,
1939, pp. 32-37, cit. p. 32.


La mia devozione a San Pier d’Alcàntara è d’origine tutta privata. Dipende che fin da ragazzo ero abituato a vedere nella mia casa povera un’immagine nella quale il santo — un ossuto e austero frate francescano — era rappresentato in uno dei suoi miracoli: mentre cammina sulle acque, con attorno i suoi simboli e attributi: la colomba e il bastone. Nemmeno il lume del miracolo bastava ad addolcire quella sua aria grifagna. Nemmeno la presenza della colomba. Forse un frate cercatore, di quei che giran la campagna dopo San Bartolomeo, aveva data l’immagine a mia madre in compenso della carità d’un uovo o d’una brancata di farina gialla o di non so che frutto dell’orto: le sole cose a portata di mano della povera gente. Fatto è che mia madre per divozione l’aveva incollata con del chiaro d’uovo su una parete della cucina che, con un altro bugigattolo, era tutto il nostro pianterreno, nel vano tra il canterano di noce e la màdia, dove mio padre la sera deponeva la sua lucida vanga di fattore e campaio d’acque, ereditata da mio nonno, guardia campestre: il solo argento che splendeva in casa mia. Talvolta anche vi accendeva un lumino: ed era quando pensava di ottenere dal Santo qualche aiuto speciale, che so io? che i pulcini nascessero tutti, o che cessasse il mal delle galline: interessi tutt’altro che trascurabili nell’ordinaria amministrazione di una famiglia povera.




Testo estratto da:

CESARE ANGELINI

LA VALORIZZAZIONE DEI POVERI

In C. Angelini, Conversazioni sul Vangelo,
Brescia, La Scuola, 1930, pp. 101-112, cit. p. 103.


Una volta a dir poveri, si pensava a dei poveri veri: a certi dolci e gloriosi mendicanti (vecchi e storpi e inetti a ogni lavoro) che, un giorno la settimana, venivano in campagna, nei nostri paesi, a cercare la carità. Si fermavano a ogni uscio: a quello dei ricchi, ricevevano una piccola moneta; a quel dei poveri avevan la carità di un bel pezzo di pane, spesso caldo perché appena sfornato; e, in compenso, all’uscio d’ogni benefattore dicevano una preghiera pei suoi parenti morti. Se proprio capitavano un giorno che c’era il gatto sul fuoco, e la madia era vuota, si sentivano dire: «Andate in pace» con un tono che non umiliava nessuno. Vederli, la santità che spargevano con la lor dolce rassegnazione, c’era sempre da sospettare che sotto quelle povera spoglia ci fosse il Signore in incognito, che ha pure amato identificarsi con essi.
Oggi gli usi e i costumi nuovi li han quasi aboliti, e di questi poveri come dico io (poveri nella realtà e nello spirito: poveri contenti) forse non ne esistono più. Ma il mondo oggi è povero, appunto perché non ci sono più i poveri. Con la loro scomparsa, par sia venuta meno una dolce immagine del Signore, e uno dei ricordi più edificanti e più vivi della nostra fanciullezza povera e lontana.




ANNOTAZIONI...


Prima pagina di una copia di C. Angelini, Questa mia Bassa (e altre terre), 1971, riportante annotazioni autografe riguardanti atmosfere e ricordi del paese natale.

Centro Manoscritti Università di Pavia

TRASCRIZIONE

...la strada, anzi, lo stradone di Lodi
...alberate che segnano il cammino curvo dei fossi
...le stalle, le aie ...piene di proverbi e storie dei tempi andati
...il ritorno al paese non può avere che il tono dell’elegia
...la dura condizione del contadino
...gl’influssi della luna sulla semina
...e le case son diventate più confortevoli
...per di più, ora mostra la miseria dolente che hanno le case disabitate.
...di quei coetanei non c’è ne più uno vivo
...i campi e i prati che il vento fa ondosi
...Ragazzi, s’andava a rubar mele nell’orto del parroco (o a gettar voci nei pozzi) o per nidi di passeri e merli
...Il vento ha portato via tutto: anche la croce che stava al capo orientale del paese, anche il fosso che creava un isolotto proprio nel centro.


***

[Le frasi seguenti sono trascritte da appunti autografi nelle pagine indicate]

p.24: Noi ragazzini, per farci felici, bastava un rametto di dulcamara da succiare, che cresceva nel fitto della siepe dell’orto.
p.25: Dovrei dunque dire che «la mia infanzia fu il termine iniziale della mia poesia» in quella prima conoscenza della flora e della fauna paesana.
p.25: I ricchi avevano tutto, i poveri niente: la condizione sociale accettata senza discussione e litigio.
p.26: Ricordo la camminata con mio padre al santuario della Colombina, il 25 marzo, a comprare il filzone, o quelle con mia madre al mercato di Belgioioso a comprare il grembiule a 4 soldi il metro.
p.26: La piccola mano nella tasca
p.28: ...durezze di vita che non si denunziavano nemmeno come mali, ma rievocazione di un’esistenza che, pur nella povertà, ignorava la disperazione, la alienazione, e rispettava come sacre le istituzioni ricevute: la famiglia, la casa, la religione
p.28: ...quando i ricchi avevano tutto
p.28: ...non ignari che esistezze la ricchezza, ma che fosse necessaria per vivere felici
p.28: ...e bastava un segno di croce, per riaggiustarsi sulle spalle il sacco della vita.