ADA NEGRI CHIESETTA DI CAMPAGNA
Dal “Corriere della Sera” del 10 agosto 1931
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La chiesetta di Salice Terme (Pavia), in una fotografia d’epoca |
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Salice
Se fossi arrivata prima della mietitura, in questa plaga frumentaria avrei trovato la gran bellezza delle spighe al giusto punto di maturanza: nulla è più ricco da vedere, al mondo. E la chiesetta a cui voglio bene, minuscola in mezzo al verde, mi sarebbe apparsa un veivolo a terra, fra le due ali d’oro di due campicelli compagni, a triangolo: pronta a spiccare il volo col campanile e tutto.
Niente ali d’oro, adesso. Nient’altro che spunzoni e ariste mozze; ma le siepi son verdissime, e così i prati e i boschi, ad onta della siccità che spacca a losanghe il terreno duro, saturo d’elementi jodici e solforosi, prodigo nella vegetazione come un terreno vulcanico.
Alla chiesetta ci son venuta per una stradicciola ch’è un amore, sfociante fuor del paese fra orti e rustici, macchie rosee di malvoni e d’oleandri, vigne basse, amichevole co-co di galline dalle muriccie dei pollai. Fa gomito su uno spiazzo ombroso d’olmi, che vuole essere il sagrato: la chiesetta è lì, e tutt’intorno la campagna: quella vera che anche un cieco la riconosce dall’odore.
Come mai una chiesa piccola e umile come una casa di poveri possiede un campanile così alto in proporzione, e s’apre su un così nobile portico?
Il portico serve da facciata: con una Madonna dipinta sul timpano, è di cinque archi, tre sul davanti, due sui lati; sotto gli archi laterali sta fra muro e pilastro un massiccio di pietra, che permette di sedere; di là, dalle finestrelle quadre a inferriata, si può curiosare quel che succede in chiesa e veder tremolare le fiammelle dei ceri dinanzi alle immagini. Questo portico è il più bonario, il più accogliente che io sappia, ci resterei mezza la giornata, in compagnia dei sei nomi di Caduti in guerra che il paese, di poche anime, ha fatto incidere su una lapide di fianco alla porta; e della rondinella che ha il nido in un angolo sulla volta, proprio in faccia alla lapide, e spesso va a posarsi sulla foglia più alta della corona di bronzo proteggente i nomi dei Caduti: non si disse per vegliarli, o per non perdere di vista gli inquieti capini de’ suoi nidiacei.
È vestita da carmelitana, come la Santa Teresa di Lisieux che sorride nella penombra della chiesa, dalla parte scrostata, fra rose di carta e lumini. Saio bianco, manto nero; ma come le battono le due punte lucenti della coda! E a un tratto, vrrr!... Scappa, razza via con uno strido a indicar l’imbeccata.
La casa di Dio è anche la casa del Parroco: le sue poche stanze terrene sono dietro la sagrestia; due passi fuori del portico; e entro nell’orticello. Quattro palmi di pergolato, ma fitto fitto: quattro pali di fagiolini, ma freschi e allegri d’un’allegria da contadinelli scalzi; una siepe lo divide da un chiuso dove fa ombra un gran pero carico di frutti. Ora allegano i denti; ma fra un mese saranno burro. Bello, don Pietro, godersi, quest’ombra nelle ore di riposo, leggendo qualche libro di religione, e non avendo nulla sulla coscienza. Non passano che contadini: si ode il rombo della trebbiatrice: i lavori della campagna sono al colmo, anche il sagrestano è occupato nel suo campo, e don Pietro, deve, per la benedizione, suonar le campane da sé.
Che semplicità e che fervore in questo prete asciutto e segaligno, sempre in moto, dagli occhi accesi, dalla parola convinta, pronto a suonar la campana con la stessa passione e letizia che mette a cantare gli oremus! Non lascerebbe il suo Salice per nulla al mondo: i suoi parrocchiani è come se li avesse fatti e allevati lui: la sua chiesetta gli pare bellissima, anche se in confronto all’altre è piccola come il nido della rondinella sotto l’arco del portico.
«Don Pietro, non le pare? Ci vorrebbe almeno una mano di bianco.» « Non importa: Dio ascolta le preghiere, non guarda lo stato dei muri.» «Don Pietro, l’inverno qui deve essere lungo e duro: ha molti libri nella sua libreria?» «Oh, pochi, pochissimi: siamo poveri sacerdoti di campagna. Ma basta il Vangelo. Nel Vangelo c’è tutto. E quanto, quanto, in secoli e secoli, s’è meditato e scritto sul Vangelo! Pure è sempre nuovo: basta aprirlo, in qualunque ora, a qualunque punto, in qualunque stato d’animo, per trovarvi luce e consolazione.» «Don Pietro, conosce un bel libro su questo tema, uscito da poco, di don Cesare Angelini? S’intitola, appunto, Conversazioni sul Vangelo [La Scuola Editrice, Brescia, 1930, ndr].»
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Ed ecco che la figura pensosa e cordiale del giovine sacerdote umanista lombardo, nel quale la fede, la coltura, la carità e l’ingegno s’illuminano a vicenda in opere ed esempi di limpida compostezza, è venuta fra noi attraverso il discorso; e s’intona assai bene con l’orto di don Pietro, la lieta povertà della chiesa e della casa parrocchiale, e questo buon odore di terre lavorate. Ne’ suoi Commenti alle cose [Casa Editrice Alba, Milano, 1925, ndr], libro uscito qualche anno fa, vi son pagine ingenue, nelle quali la neve del gennaio-gennarone è veramente neve, che pare d’affondarvi le scarpe; e l’estate agreste è proprio quella che respiriamo io e lei, caro don Pietro, qui seduti al fresco di quattro palmi di pergolato.
Alle Conversazioni sul Vangelo don Angelini non vuole dare importanza. Per carità! Vangelo: parola che fa tremar le vene e i polsi. Il libro incomincia con un incantato chiaro di luna: l’autore e il suo amico don Arnaldo Protti passeggiano al lume di un plenilunio d’agosto sulla strada da San Colombano al colle della Madonna dei Monti. Si voltano in su a rimirare la luna: così lucente, dice don Angelini, «da parer lavata nell’acqua del Lambro». Ed egli ad affermare che la nostra poesia non è che un campo rischiarato da un bel lume di luna, cominciando dalla «luna tonda» di Dante; e don Protti a citar Virgilio. A quei raggi il discorso si illumina di Dio: s’entra nella poesia del Vangelo, che più pura e solenne non esiste per il conforto degli uomini. Ecco don Angelini infervorarsi a ricordare le umili cose esaltate nel Vangelo: «dal bicchiere d’acqua alla briciola, dal granello di senape al pezzetto di lievito, al sale, al fiore, al passero». E, a proposito d’umiltà, commentare quel canto sublime ch’è il discorso della montagna.
Così, pendendo la luna d’agosto sui campi e sugli spiriti, e parlando cuore a cuore con un amico, venne fatto a don Angelini d’iniziare le Conversazioni sul Vangelo.
Con sottile acutezza e fede certa egli ci mette sull’avviso, notando che, se in questi ultimi tempi v’è da rallegrarsi per essere la lettura e lo studio del Vangelo tornati, diremo così, di moda, conviene stare attenti, e non fare confusioni, ponendo il Vangelo alla stregua di Platone, Marco Aurelio, Virgilio, Mazzini: o delle favole di Andersen, che son ben altra cosa delle parabole di Gesù. Il meraviglioso ch’è nel Vangelo, — giustamente afferma l’Angelini, — è miracolo: e ci fa sentire la tremenda e stupenda verità d’essere figli di Dio. Quindi, riaccostarsi al Vangelo, sì; ma come a fonte divina, e per la salvezza dell’anima.
Originali, e davvero belli, i capitoli delle «Rivelazioni».
Rivelazione del Padre. Le altre religioni hanno cercato d’avvicinare Dio all’uomo: il Vangelo ha avvicinato l’uomo a Dio, facendo di Dio un Padre. Paternità amorosa e misericordiosa, che tutto comprende e tutto perdona. Il terribile Jehova degli Ebrei, Dio punitore e sterminatore, è divenuto il Dio clemente, che il Manzoni pone sulla «deserta coltrice», accanto a Napoleone inanimato. A Mosé, Jehova risponde: — Io sono Colui che è. — Cristo dice: — Uno solo è il Padre vostro: Colui che è nei cieli. — Col Vangelo è comparso nel mondo un volto nuovo: il volto del Padre; per cui San Paolo potè chiamare Gesù Cristo «primogenito fra molti fratelli». E don Angelini può dire, con lirica sincerità: — Dopo la rivelazione stupenda della Paternità di Dio, anche noi, — slargandosi i paesi dello spirito — abbiamo l’impressione di camminare sui monti: ogni cosa è piena di Dio e risplende della sua gioconda presenza. L’umanità ci appar bene come la grande famiglia del Signore; e la terra è la sua casa.
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Seconda rivelazione: della Provvidenza.
E qui, caro don Pietro, non v’è che ripetere il passo dello scrittore. Tanto è schietto e chiarificante: «Ora dobbiamo dire che nel Vangelo la Provvidenza non compare più con l’abito di gala, né più ha spicco il modo come Dio provvede: la Provvidenza è il divino quotidiano. Non è più un fatto splendido per circostanze esteriori che l’accompagnino; ma ordinario e comune: è un dono immanente nella stessa vita cristiana. Possiamo parlare di Provvidenza paterna, esercitata proprio nel modo come il padre l’esercita co’ suoi figliuoli. Di qui la fiducia assoluta e l’abbandono con cui i cristiani hanno da rimettersi in lei, e in lei respirare come nella luce e nell’aria.»
«Va al mare, dice Gesù all’apostolo: getta l’amo, prendi il primo pesce che verrà su: aprigli la bocca, e vi troverai quattro dramme: prendi e paga.» E nella pagina degli uccelli e dei fiori: «Osservate gli uccelli dell’aria: non seminano, non mietono, nulla ripongono nei granai: eppure, il Padre vostro li nutre. Considerate come crescono i gigli del campo...»
Ma si fa tardi, caro don Pietro; e lei deve andare fra poco a suonar la campana per chiamare i fedeli alla benedizione. Io ci starei fino a notte a commentare con lei questo libro pieno di grani d’oro della vera sapienza, cioè della vera semplicità. Più si va innanzi nella lettura, più splendono. Vi son pure le pagine donde salta fuori il letterato, il critico arguto, che tira gli orecchi a Boileau perché nega al Vangelo la poesia, e assolve Oscar Wilde perché ha messo Gesù fra i sommi artisti; e, scendendo al Manzoni degli Inni Sacri e dei Promessi Sposi, scopre in queste opere il Vangelo quale elemento vivo. E trovi finissima l’analisi che fa della natura angelica di Lucia. Ma, dei capitoli sulle «Valorizzazioni», più mi piace quello dei poveri, in quanto la povertà ha da esser sentita in funzione di carità: capitolo tutto da amare, tutto da ricordare. E quello sulla valorizzazione della donna fatta da Gesù Cristo: il primo a considerare uomini e donne uguali davanti a Dio. Quante donne nel Vangelo, cominciando da Maria! Don Angelini le divide per gruppi: il gruppo delle donne di sfondo, Elisabetta e Anna, Erodiade e Salomè: delle pie donne, che seguono e servono il Maestro: delle madri di Galilea: delle miracolate: delle Vergini nella parabola delle lampade: infine delle peccatrici: l’adultera, la Samaritana ch’è la più misteriosa, e la Maddalena ch’è la più grande perché più di tutte ha amato. In quale altro libro vivono immortali figure femminili, come nel Vangelo? Le donne lo sanno, che fu Cristo a riconoscere in loro l’anima, e a redimerle da Eva. D’innamorate di Cristo, attraverso i secoli, la terra è piena; e sempre lo sarà.
Don Pietro, se fosse possibile diffondere tra la gioventù libri ariosi e fervidi come questo! Ma la compagnia del nostro don Angelini ci ha condotti molto lontano. Vada, vada, don Pietro; e mi scusi d’averlo trattenuto così a lungo. La chiesetta è già piena di gente che non ha bisogno d’udire la campana per sapere ch’è l’ora della benedizione. Io la benedizione l’ascolterò sotto il portico: non è una parte della chiesa? Quella che guarda i prati e le stelle? Di qui mi parrà che anche i grilli, nel refrigerio della sera, dicano il rosario o cantino le litanie.
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In C. Angelini, Conversazioni sul Vangelo, Brescia, La Scuola Editrice, 1930: «Alla grande e cara Amica | Ada Negri | che vive presso Dio | affettuosamente | il suo Angelini | Pavia, 17.V.’31».
archivio privato |
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[Ringraziamo Cesare Repossi per avere molto gentilmente fornito copia dell’articolo.]
DAL CARTEGGIO
Valbissera di San Colombano al Lambro La Vigilia di Santa Chiara. 1931
Carissima Signora,
il suo bel discorso, me lo son letto ier sera, tornando da San Colombano verso la Madonna dei Monti, quasi al lume delle stelle più puntuali. Stelle di San Lorenzo!
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Con quanto amore Lei mostra d’aver letto il mio libretto, e di ricordarlo in qualche punto meno opaco e greve! E come l’ha collocato bene: tra un campo di spighe, ondante nella sua biondezza antica e il rosario dei grilli! Così Lei gli ha dato una cornice e una linea.
Grazie anche d’aver detto così bene del Vangelo sul giornale diffusissimo. Né io né Lei possiamo misurare il bene che questo suo discorso può fare a tante e tante anime. Azione bella e buona, dunque, la sua; ch’era l’ambizione di ogni ottimo greco fin dai temi di Socrate: calòs caì agatòs.
E un’altra cosa ho capito: che Lei mi vuol bene. Sapesse il gusto che mi dà questa persuasione, rafforzatasi ora attraverso alla lettura delle sue due lucenti colonne.
Grazie. E abbia tutta l’amicizia del suo
Angelini
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