CESARE ANGELINI LA CONVERSIONE
In C. Angelini, Capitoli sul Manzoni vecchi e nuovi,Milano, Mondadori, 1969, pp. 359-367.
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Enrichetta Blondel e Alessandro Manzoni Sala Manzoniana della Braidense, Milano |
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Un giorno del giugno 1810, Alessandro, Enrichetta e donna Giulia lasciano Parigi dove dimoravano da cinque anni, e su una scampanellante diligenza tornano a Milano o, più veramente, a Brusuglio, alle porte di Milano. Alessandro ci torna con due cose, anzi con tre: la fede, il mal di nervi, e il disegno degl’Inni sacri in mente.
La Fede, come l’aveva ritrovata il Manzoni? Su questo fatto capitale della sua vita, i suoi lettori vorrebbero avere notizie più positive. Ma non le abbiamo. Lui, il poeta, sui modi del suo ritorno alla Fede non ha mai voluto parlare «per quel pudore che repugnava a scoprire il suo intimo». Parenti stretti e figliuoli, in casa, lo andavano strologando. Scivolava. Rispondeva a Vittoria: «Figlia mia, ringrazio Dio che ebbe pietà di me; quel Dio che si rivelò a S. Paolo sulla via di Damasco». E al figliastro Stefano Stampa, anche più vagamente: «È stata la grazia di Dio, mio caro; la grazia di Dio». Ma non andava più in là. Questo fu sempre il suo bel silenzio. I critici si sono sforzati di interpretarlo: non si può dire che abbiano concluso gran che.
Chi ha parlato di una conversione giunta improvvisa — un miracolo —; chi d’un lento lavorio dello spirito e della mente; un fatto di natura logica. Contano che il 2 aprile del ’10, a Parigi, entrato nella chiesa di San Rocco «pieno l’animo di gravi pensieri che da tempo lo tormentavano» ma più ancora sbigottito per aver smarrita Enrichetta tra la folla che assisteva a feste napoleoniche in piazza della Concordia, avrebbe esclamato: «Dio, se esisti, rivelati a me», «e si levò credente». Non neghiamo il fatto poiché lo raccontano uomini degni di fede come il Càrcano e lo Zanella e il Cerioli e il Norsa e la Maffei; ma, forse, non bisogna sopravvalutarlo fino a chiamarlo un miracolo. A badar bene, non è tanto il fatto che spiega la conversione, quanto la conversione che — post factum — avvalora il racconto.
Sulla questione s’aspettava un po’ di luce da un libro promesso da tempo da Giulio Salvadori. Il libro è venuto, ma non la luce; il valent’uomo, cedendo a una sua interpretazione mistico-allegorica, ci ha ricostruito il processo della conversione in un modo tanto fantastico che finisce per abbuiare di più. Proiettando sulla quistione manzoniana parte o troppa della sua personale esperienza di convertito, è arrivato al limite di un inverosimile romanzo; e Filippo Crispolti, amico del Salvadori ma più amico della verità (che in questo caso è il Manzoni), ha giustamente osservato che il fervore del mistico ha sviata e velata la prudenza del critico.
Sicché, ci ripetiamo la domanda: «La Fede, come l’ha ritrovata il Manzoni?». E la domanda ci permette di tornare indietro un passo, fino a Parigi, a rivedere un po’ l’ultimo periodo della sua vita laggiù.
Il dicembre del 1908 nasce la prima figliuola, Giulia. Contro il parere delle donne, Enrichetta e sua madre, che la volevano battezzare col rito di Calvino, Alesandro vuole il rito cattolico. Padrino, il Fauriel. Atto d’ossequio alla tradizione da parte d’un nobile che v’era, più di ogni altro, tenuto, o non piuttosto era il temperamento fondamentale della razza Manzoni che trionfando misteriosamente di due generazioni di Beccaria — Cesare e Giulia — tornava indietro a riprendersi?
Senza sforzare il tono delle cose e dei fatti, dobbiamo portare il nostro interesse verso questo episodio, come il primo visibile passo di un oscuro processo. Attende ubi albescit veritas. E sia lecito dire che al Manzoni è toccata la sorte che tocca in ogni tempo ai convertiti: i biografi, attaccandosi a qualche sua reale parola o gesto, hanno esagerato il suo passato irreligioso per creare distanza tra l’uomo nuovo e il vecchio, fra il peccatore d’ieri e il santo d’oggi. Ateo, il Manzoni non fu mai, anche nel tempo che visse come se Dio non fosse, lontano dalle pratiche religiose. Basterebbe ricordare la sua lettera del ’07 al Pagani in morte dell’Arese, che riassume e testimonia tutta la speranza cristiana. Poi, anche questo è toccato al Manzoni: che molto del volterianesimo di sua madre, s’è proiettato sopra di lui, per esser vissuto all’ombra di lei, amandola d’un fanatico amore proprio negli anni che donna Giulia era mal giudicata. Sicché nel giudizio severo madre e figlio furono spesso coinvolti. Tant’è vero che il primo senso della sua conversione lo abbiamo in un fatto semplicissimo e però di molto valore: che, spostatosi, più s’allontanerà dalla madre per avvicinarsi, naturalmente, alla sposa, e più ci darà l’impressione di non esser più quello. E veramente Alessandro viveva vicino a Enrichetta, ammirandone l’animo verginale e la profonda religiosità, e, tutto trepido d’esser degno della purezza di lei, cercava di veder chiaro nella sua vita passata. La presenza e il contatto con Enrichetta ravviva in lui quello che di buono gli era rimasto e che nemmeno Parigi aveva potuto avvilire.
Dall’altra parte Enrichetta (l’amore non è mai ozioso) riflette su questi fatti: se Alessandro ha voluto il battesimo cattolico della figliuola, è perché in cuore gli sopravvive la fede nella sua vecchia religione. Bisognava aiutarlo a ritrovarla intera, a qualunque costo; fino ad abdicare alla propria per abbracciare quella del marito. Aggiungete che il disagio morale ch’ella provava a frequentare la mal maritata Sofia, alla Maisonnette, l’aveva persuasa a diradarvi i ritorni, e l’aveva portata verso una buona vedova, la Geymüller, sua connazionale, ch’era a Parigi da qualche anno e dall’abate genovese Eustacchio Dégola era stata convertita alla religione cattolica «sotto gli auspici dei Santi di Porto Reale».
Tutto questo era, a sua volta, notato da Alessandro e anche da donna Giulia, in cui il vento della passione s’era venuto calmando, e non poteva sottrarsi al fascino della creatura soave.
Influenze reciproche, senza dubbio. Fatto è che nel settembre del ’99, i due sposi di comune consentimento chiedono e ottengono di ricelebrare il loro matrimonio con rito cattolico, e il 15 febbraio del ’10 il matrimonio è ribenedetto. Come conseguenza, il 22 maggio Enrichetta fa l’abiura al protestantesimo nelle mani del Dégola che, attraverso la Geymüller, ora è amico di casa. All’abiura sono presenti Alessandro e Giulia e ventisei testimoni tutti della chiesa gallicana. Dunque, matrimonio cattolico, ma all’insegna del giansenismo. Né il Dégola, zelante quanto austero e dotto, abbandonerà più la cara neofita, alla quale ha consegnato una ripida regola di vita: Exhortation à une nouvelle catholique. Giunto a lei quando la conversione è già compiuta, collabora quanto più può alla sua educazione cristiana con le famose conferenze in casa Manzoni, alle quali prima assisteva solo Enrichetta, poi anche Alessandro e donna Giulia.
Questo, alla svelta, il ritrovamento religioso del Manzoni; che lui stesso, in una lettera al Fauriel (21 settembre del ’10) definirà da Milano «le idee mandatemi dal Signore a Parigi». Mandate dal Signore; e attuate con l’aiuto d’una ex protestante e d’un accanito giansenista. Salutem ex inimicis.
Chi dunque vuole, questa conversione la chiami pur dramma, che lo è, come tutti i movimenti che intervengono nello spirito; ma un dramma che ha sviluppi graduali e soluzioni e crisi pacifiche senza fulgurazioni né tragedie, senza toni violenti o strepito di miracoli. Vorremmo dire senza San Rocco¹. Piuttosto, il lento lavorio d’uno spirito fortemente meditativo di buon accordo con la Grazia, la quale è rappresentata dall’incontro con una santa donna, Enrichetta, e un fior di sacerdote, il Dégola, cui il Manzoni va incontro «come ad aspettato».
Si pensa alla conversione dell’Innominato, che nemmeno quella è un fatto violento. L’Innominato è vissuto tanto tempo come se Dio non fosse, ma la famosa notte della conversione non è cosa improvvisa; suppone un precedente lavorio, anzi è detto: «Già da qualche tempo cominciava a provare se non un rimorso, una certa uggia delle sue scelleratezze; una certa ripugnanza provata nei primi delitti, e poi vinta, tornava ora a farsi sentire...». A questo punto gli entra in casa una donna che intorno al capo ha una raggera d’argento — Lucia ossia la Grazia — e nel lume d’una parola sentita da lei (Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia) l’Innominato è spinto a tornar su suoi passi, a rivedere la sua vita, a cambiarla. E la crisi è risolta definitivamente dall’incontro d’un sacerdote, Federigo, che va verso di lui «come ad una persona desiderata». Grazia dunque, o fatto che si può ricondurre alle proporzioni d’un fenomeno psicologico e naturale. Però c’è ancora chi continua a crederlo un miracolo. Sapete che anche il buon sarto di Chiuso lo chiamava lietamente così: e, dice il Manzoni, «non si creda che fosse lui solo a qualificare così quell’avvenimento. Ché, a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome». Con quelle frange lo stesso Manzoni ha ricondotto il fatto entro il suo limite vero. Da buon cattolico egli possedeva della Grazia un così vivo sentimento, da non avere, forse, bisogno di incomodare il miracolo.
Ma un’altra domanda vuol essere fatta: poiché il Manzoni al tempo della conversione s’imbatte in maestri e amici giansenisti e in questa dottrina viene istruito, e quanto giansenismo passò nell’animo suo? È questione sempre aperta, e ha creato una vasta letteratura. Sapete che il giansenismo ammette un’innata disuguaglianza morale fra gli uomini, distinguendo i pochi privilegiati o eletti dalla massa dei perduti. Ne deriva che l’uomo, da solo, salvarsi non può: ha bisogno della Grazia. Che non è di tutti; è un dono che Dio fa a chi Egli vuole, non a chi la vuole. Ogni grazia esce dunque dall’ordine comune dei fatti, e prende il valore di un miracolo. I pochi eletti poi devono immolare la loro vita per la salvezza del mondo. Dottrina rigoristica e senza allegrezza che, risolvendosi in un servile timore di un Dio terribile, pone l’ideale cristiano a esigenze troppo alte e inumane. Dottrina condannata per gli eccessi a cui portava. Se non che in Manzoni, per quell’equilibrio che fu sempre il suo proprio, viene temperata e ridiventa cattolica. Sa il Manzoni che la Grazia è un dono di Dio, ma un dono che Egli fa a tutti quelli che la chiedono. Anche la conversione quindi non è sempre un miracolo, ma una grazia; la quale opera su gli elementi della natura, cioè sulle buone disposizioni e volontà di chi si converte. Il Manzoni, dunque, fu mai giansenista in alcun momento della sua vita? Mai, se ci riferiamo al giansenismo dottrinale, teologico, di stampa francese, rappresentato tra noi dal Tamburini e dallo Zola, o da Scipione de’ Ricci; mai, se ci riferiamo anche al giansenismo politico, assolutistico prima e «civico» poi, che degenererà nei preti «sanculotti». Si, se ci si riferisce al giansenismo essenzialmente morale e riformatore quale si era venuto configurando in Italia, ad opera del Dégola, di monsignor Tosi, e di Adeodato Turchi, e altri di quella scuola. E ha ragione il Rota di dire che se qualcosa il Manzoni ha portato via al giansenismo, fu certo la parte morale e vitale, che approfondiva il sentimento di Dio, l’umiltà della vita, la santità dei pensieri, la carità delle opere. Sicché molto giovò al poeta l’aver incontrato sacerdoti giansenisti della forza d’un Dégola e d’un Grégoire e, più tardi, un amico di costoro (che non fu mai giansenista) il Tosi: i quali, con l’esempio di una vita angelica e di una carità evangelica, erano l’apologia vivente delle verità che gli altri predicavano.
Dunque, un bel giorno del luglio 1810, con la moglie e la madre, al tintinnio d’una diligenza, il Manzoni arrivava da Parigi a Brusuglio dove per molti anni vivrà vita appartata — domum servavit — e dove gli nasceranno molti e mortali i figliuoli, poche e immortali le opere.
Ritornato credente e cattolico, c’erano degli scettici che lo schernivano e accusavano di bacchettoneria? Il capitano Foscolo lo difendeva con quel suo gran cuore e quella voce procellosa usa a comandare silenzio in campo aperto, «vantandosi esso di sprezzare non i credenti ma i soli ipocriti». In quanto a lui, Alessandro, non ci badava. Badava piuttosto alle parole e alle massime abbracciate: «Le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan essere vere altre parole e altre massime opposte, e prese per forma delle sue azioni e pensieri quelle che erano il vero». Queste righe, scritte per il Cardinal Federigo, paion proprio scritte per lui, e forse in questa, e in situazioni somiglianti, è da cercare l’elemento autobiografico e soggettivo che sta così gelosamente nascosto che è pur tanto presente in tutto il romanzo. A ogni modo, persuaso ora più che mai che la vita non è già «destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto» pensò a rendere la sua utile e santa, per sé e per gli altri, col dono più suo: l’esercizio delle lettere.
1. Per la cronaca notiamo che su iniziativa di un comitato italo-francese, il 21 dicembre 1937 nella Chiesa di San Rocco in Parigi fu collocata una lapide a ricordare il fatto della conversione. Il testo della lapide suona così: «Dans cette église — le cèlebre écrivain italien — Alessandro Manzoni — le 2 avril 1810 — retrouva la foi — de son baptême». Il conte Giuseppe Della Torre pubblicò, nella occasione, un interessante volumetto: E si levò credente (Milano, Soc. Ed. Vita e Pensiero).
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La villa di Alessandro Manzoni a Brusuglio in una incisione tratta da un quadro di Massimo D'Azeglio |
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