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CESARE ANGELINI

I GIORNI DEL FOSCOLO A PAVIA

In C. Angelini, Nostro Ottocento,
Bologna, Boni Editore, 1970, pp. 11-56.

***



I

«Pendo a diventar professore».




Pavia, via Ugo Foscolo (già borgo Oleario)

Fotografia di Luisa Bianchi


«A Pavia, chiedi la casa Bonfico, borgo Oleario...», scriveva all’amicissimo Brunetti, in data 3 gennaio 1809. Con l’invito, gli mandava il suo indirizzo.
Caso o scelta, il Foscolo non poteva capitar meglio. Fuori mano, nella parte orientale della città, la via (detta borgo perché fuori le vecchie mura) andava e va angora oggi tra le case probe, solidali, che s’inebriano d’orti e di luna. Levigata dal vento che scendeva dai vicini bastioni secenteschi abbattuti da poco, ha movenze sobrie, ondulazioni lente. Il malgusto del secondo Ottocento le cambiò nome, e borgo Oleario — quasi fuga nel fiabesco, dai molti oliai che l’abitavano — diventò via Foscolo; come la vicina «Contrada dell’acqua» così detta per un rio che vi scorreva per il lungo, diventò via Volta. Per celebrare un uomo, han disperso una tradizione, un colore. Via Foscolo rimane tuttavia remota, mite; e il tempo vi passa come sopra una nave, in silenzio. D’estate, odora di magnolia e gelsomino.
Ma quando vi giunse lui, era inverno rigidissimo e di meravigliose nevi. «Freddo, Brunetti mio, freddo da bruciare un carro di legna per settimana, scaldandosi il corpo dinanzi, ed esponendo al vento e al reuma le spalle. Io che sto sette o otto ore continue con l’immobilità di chi legge, o scrive, o pensa, non trovo né sofferenza né rimedio al freddo. Sospiro un Franklin, ma se mi tocca di lasciar Pavia dopo quest’anno e fors’anche prima, sono danari sacrificati al dio Freddo con pochissimo pro... Freddo insolito! La neve è alta undici once; così sperimentarono questi nostri dell’Università, ed è gelata per terra quasi da per tutto, cosa che non ho mai veduta neppure a Calais».
Buona occasione per chiudersi in casa, nella bella casa Bonfico, rimasta quasi tal quale, in un’aria un po’ logora: l’androne, il cortile, il giro dei corridoi, le scale, le sale con dipinti mitologici che paion precorrimenti allegorici alle Grazie, e forse comandati da lui: entro un colore d’avorio che il tempo, sbiadendo, ha nobilitato. Non senza un trasalimento si entra e si respira in questo luogo dove visse alcun tempo un uomo che parve abitato da un nume. Per queste finestre vide passar le stagioni, galoppar nuvole in cielo, crollar stelle, fioccare, profumarsi i giardini. Da questa porta usciva per andare alle lezioni, alla posta; forse, per andare incontro a una donna. Una lapidina sul muro, ove si mescolano foglie d’alloro e parole di Vittorio Cian, ricorda la casa che ospitò il procelloso professore, lo scalpitante poeta.
La cattedra, il Foscolo l’aveva chiesta nel febbraio del 1808, quando il titolare era moribondo. Naturalmente voleva dire lasciar la milizia, il grado di capitano. Ne scriveva a un amico: «Il professore d’Eloquenza in Pavia è a morte: chiedo quella Cattedra. Avrei sei mesi di assoluta indipendenza, e nei mesi scolastici molte settimane libere, segnatamente nel carnevale... Rinuncio a molte belle speranze; ma avrei più tranquillità, vita meno errante, e studi più liberi. Pendo a diventar professore».
La nomina gli venne con decreto 18 marzo. Ne diede subito notizia agli amici. Al professor Cagnoli, per esempio: «Venite, vi accoglierò come uomo caro alle Lettere e all’Italia. E io son divenuto anche vostro collega; ier l’altro son stato eletto successore al Cerretti nella Cattedra d’Eloquenza in Pavia, quamquam mea cognita virtus — terreat, infirmae nequeant subsistere vires». E al Pindemonte, al Giovio, ad altri. Desiderata, l’aveva desiderata. Era un modo per quietare la matta gioventù. «L’amore di vita più riposata e il desiderio di consacrarla agli studi, mi confortarono ad aspirare alla Cattedra di Pavia». E ancora, con un senso di giovinezza declinante: «Ho varcato i trent’anni, e bisogna ormai ch’io pensi più alla quiete e alle Lettere che alle armi e ai ricami delle divise soldatesche: ho chiesto dunque un impiego più confacente al mio ingegno e alla mia indipendenza individuale». Per farglielo avere, s’era mosso anche il Monti, lieto che il suo giovane amico («l’acuto e ingegnoso matto del Foscolo)» salisse la Cattedra ch’egli aveva rumorosamente calcata nei primi tre anni del secolo.
Però, avvicinandosi l’autunno, il Foscolo aveva qualche preoccupazione. Sia per le lezioni da preparare («Mi vengono innanzi, mi stanno sul capo, come ombre minacciose le lezioni ch’io dovrò fare a Pavia: ci penso sempre e non lavoro mai. Ma che potrò insegnare io?») sia perché non riusciva a organizzare la nuova abitazione: «Ogni ora che passa, mi grida di andare a Pavia. Ma come partirò se mi manca il necessario?». E il necessario erano le lenzuola per il letto, le pentole per cucinare, le stoviglie per desinare. Tanto più che a convivere con lui, veniva il professor Montevecchio, tutto matematico ed A + B. «La ditta Foscolo-Montevecchio» dirà scherzando il poeta. Ora poi scopriva anche meglio certe scontrosità e durezze del suo carattere. «Prevedo che nell’Atene lombarda mal potrò affratellarmi coi maestri e peggio coi discepoli. Gli uni vorranno ossequio, gli altri affabilità. Né io sono sufficientemente saggio per contentarmi».
Intanto Pavia riempie le sue lettere, anche se guardata con un senso di disagio. All’Arrivabene, il 21 ottobre dà notizia d’una rapida corsa che vi ha fatto: «Sono andato a Pavia ad apparecchiarmi la prigione e ad onorarla». Al Pindemonte: «Io andrò a Pavia all’apertura dell’anno scolastico, non prima». Al Brunetti: «Non penso a Pavia senza vedere nell’Università mille accusatori giusti contro di me, senza udire mille maligni esagerati. Ma, caschi il cielo ad opprimermi, non verrà dicembre senza ch’io non mi trovi a Pavia». Al Monti: «Io vo dì e notte pensando come provvedere alla mia traslocazione in Pavia». Al Giovio: «Al conte Giulio scriverò quel giorno ch’io moverò verso il Ticino».
E al Ticino, al non ancora «varcato» Ticino, giunse da Milano, in legno, la sera del 1° dicembre, ch’era un giovedì: trent’anni, due ferite di guerra, bella fama di poeta che aveva pubblicato i Sepolcri, e una gran voglia di farsi onore come professore. Vorremmo ricostruire il suo stato d’animo e il corso dei suoi pensieri in quel suo primo incontro un po’ impacciato con «la città nebbiosa», «la città letterata», «l’Atene lombarda», che allora contava sì e no ventimila anime, ma ci avevano insegnato un Mascheroni, un Monti, e ci insegnava ancora il Volta. Ci aiuta una lettera mandata a Paolo Giovio tre giorni dopo l’arrivo, dov’è descritta la nuda quiete della sera d’inverno, e la suggestione dell’ora, e la nebbia che vien su dalla campagna e rovescia le piazze, le torri, le strade, a grosse onde, a banchi, a ponti. «Paolo mio, io volevo rispondere a tuo padre, ma io non avevo che di questa cartaccia. Ho mandato a cercare e ricercare per carta; ma oggi è festa, e noi siamo poco pratici di Pavia. Così ho temporeggiato fino ad ora, cinque e tre quarti, e mi sento già intorno all’orecchio la campana dell’Avemaria, e il corriere parte alle sette. Mando dunque a te la cartaccia che non ardisco presentare al conte. Gli dirai che in questa condizione di paese e di vita, unico conforto mi resta il leggere e lo scrivere conversando con pochi amici lontani... Ma basta, io m’alzo a sviarmi, a far rivivere più allegra la fiamma del mio caminetto, che correggerà forse la tristezza della nebbia tenebrosa, la quale s’addensa sulle mie finestre e si rovescia sull’animo mio».
Tutto ingenuità e passione, sente la solitudine fredda di Pavia, e s’abbandona al bisogno di comunicar con gli amici, di versare in essi la pietà delle sue malinconie. L’amicizia è «l’unico asilo della vita tempestosa»: e non lascerà partire nessuna «staffetta» senza posta. Si sfoga specialmente col Brunetti, rivelando aspetti e usi della città di provincia. «Da giovedì scorso, ch’io sono in Pavia, due volte è partita la posta — venerdì e lunedì — e oggi parte la terza volta; e due lettere ti scrissi, questa è la terza. Presto o tardi ti giungeranno; mi duole a ogni modo che indugino, e che la colpa dei corrieri si rovesci sopra di me. Ti scrivo, mio caro amico, e ti scriverò a ogni ordinario — lunedì, mercoledì e venerdì — e facesse il cielo che la posta partisse ogni giorno, ch’io non lascerei passar giorno senza ridestarti la memoria del tuo Foscolo e senza dirti come ei vive». Lo invita a Pavia: una sua visita sarà per lui un giorno di festa. Almeno non lo lasci senza sue lettere. «Sino ad oggi, e sono sette giorni, non ebbi che la lettera consegnata al Montevecchio. Oggi forse all’ufficio ci saranno tuoi caratteri; ma il corriere giunge alle quattro: gli scolari aspettano danari e notizie dai parenti, e i negozianti tutti si affollano accalcati intorno a quel piccolo buco della dispensa; e non c’è verso; bisogna attendere al freddo per più di tre quarti d’ora». Ha atteso, pazientemente; ma la lettera non c’è. Torna a casa deluso, mortificato da quei barbari silenzi, e si sfoga a scrivere lui. «Questa è la quarta lettera che io ti mando; non ho lasciato partire ordinario senza una lettera per te... Brunetti mio, io non so perché tu mi lasci languire... Qui, come sai, le lettere si ricevono a un finestrino, aspettandole al freddo, al vento e, quando c’è molta gente, anche alla neve e alla pioggia. E v’è tanta affluenza di scolari che paion le anime del purgatorio...». (Non dispiace la reminiscenza patita d’una situazione dantesca).
Per fortuna la solitudine di queste prime giornate pavesi è rotta da altre «noie»: le visite degli scolari che vanno a trovarlo con lettere commendatizie; quelle dei professori, «i soli che ho dovuto ricevere sì per civiltà, sì per sapere che faccia hanno, ond’io non li prenda talvolta per bidelli o per laureandi». Le visite, naturalmente, le restituisce, e nel descriverle diventa spassoso. «Ier l’altro e ieri e oggi mi son rivestito di nero che parea l’arcidottore Mercuriale e, seguitato da un bidello toscaneggiante e ciceroneggiante, sono andato a far visite di puntiglio a più di trenta professori, dando e ricevendo da tutti una porzione di complimenti preparati secondo ricetta accademica. Dopo questa spesa di tempo, di passi e di ciarle, sto sempre in casa». È questa fedeltà agli amici, affidata alle lettere spesso con vera ilarità d’ingegno, che ci ha conservato, nei suoi particolari, l’episodio della sua vita pavese, estremamente casalinga e tutta balenante dell’allegrezza del caminetto. «Quanto alla mia vita, io mi sto sempre in casa; esco fuori quasi per forza; ma specialmente la sera io mi sto al fuoco con alcuni giovani greci pieni d’amore per le lettere e per la patria». E ci insiste. «Io non esco, e il freddo m’è bellissimo pretesto per quelli che mi vorrebbero pour la société».
S’era affezionato alla casa; casa comoda, agiata, mobiliata con lusso, per merito del buon Brunetti sempre pronto ad aprirgli al borsa (e a chiudere un occhio sui precedenti prestiti) e anche per merito della contessa Macazzoli, «la buona Lucilla», che da Milano gli provvede coperte, tappeti, altre cose buone. Bell’appartamento con molte camere, allegre, esposte al sole, e un orizzonte tutto aria e cielo e giardini, e molto silenzio. In un momento di euforia, confessa: «Io sono elegantemente, largamente e caldamente alloggiato». Fa anche piacere sapere che il Foscolo a Pavia s’è scoperto un eccellente organizzatore della casa, un ottimo paterfamilias. Sistema, anzi, pianta il registro, regola le spese di cucina, di fuoco, di illuminazione, di biancheria, di servitù; perché, cedendo a una sua mania grandeggiante (già Iacopo era «sbilanciato nella sua domestica economia per troppa magnificenza»), tiene tre persone di servizio: Domenico il cameriere, Antonio come cuoco, e una donna, l’Angiolina, per il guardaroba. Gli aveva scritto l’orario e ne aveva appeso una copia in salotto, un’altra in guardaroba, perché l’avessero sempre sotto gli occhi e non seccassero i padroni, che avevan da studiare. Ne fa, più d’una volta, l’elogio: «Anche a cercarli con la lanterna del Cinico, non si potevan trovar tre creature né più cordiali, né più diligenti, né più ilari nell’ordine servile». Loda in particolare il vecchio fedele Domenico. «Domenico mio ara diritto, e fa le cose senza che io mi turbi a comandarle e a raccomandarle; solamente è mezz’ammalato: ha i pedignoni». Allora «esco io a impostare le lettere, e gli risparmio quanto più posso di pestare la neve alta e cristallina per le strade pavesi». Commuove. Ma il Foscolo va preparando con queste lettere la prosa snodata e viva e libera che in altri momenti ha augurato all’Italia.
In una lettera al Giovio, ci ha lasciato anche l’orario della sua giornata. Il professore si alza alle sette, e si prepara il tè. Dalle otto alle tre sta chiuso in camera senza permettere al servo d picchiare all’uscio, neppure se la casa ardesse. («Ho il corpo incarcerato tra il tavolino e il caminetto»). Alle tre si fa bello, col vestir semplice, eletto. Due chiacchiere, ed ecco le quattro e il pranzo insieme col Montevecchio, altro «rapidissimo mangiatore». A meno che sia festa: ché allora si fa qualche larghezza «e in tavola compare magari un cappone o una pollastra da trinciare col rito degli avi». Poi siedono al caminetto, prendono il caffè, narrando antiche avventure o amoreggiando le future speranze. Parlano, per lo più, di moglie; e il poeta ci avrebbe anche vocazione, ma non ha quattrini. I due stipendi che ritira, di professore e capitano (6600 lirette), non bastano per un uomo come lui, d’abitudini grandi e mani bucate. Escono a fare due passo fino al Ticino, o sui bastioni, o dal libraio Comino («il semigobbo libraio Baldassarre») che ha bottega in Strada Nuova, quasi in faccia alla casa abitata dal Monti quando era a Pavia. All’Avemaria rientrano, ed eccoli al fuoco. Si chiacchiera, si ride; si fiuta il rapé che il poeta conserva in una tabacchierina cappuccinesca. Si cantano canzoni greche con alcuni greci, viaggiatori o studenti, e canto fermo al modo degli Albanesi; e quelle arie tra il barbaro e il passionato esilarano la sua vagante anima. Alle dieci, il professore si ritira e chi resta resti. Un boccone di cena in camera, poi giù a scriver lettere agli amici, fino a mezzanotte; al Giovio, all’Arrivabene, al Pindemonte, al Monti, e, si sa, al suo caro Brunetti. Sono le buone ore segrete del Foscolo; i contatti non avari con la carta pulita, linda. Ne fa una questione di puntiglio, di pudore quasi. Triste cosa doversi talora rassegnare a scrivere su cartaccia, su carta triviale. «Io, dilettante di carta linda, ne cerco invano in questa città letterata, e ne compero a quinternetti della cattiva, aspettando a risme la buona da Milano». Ha scrittura nervosa, arabica, carattere stretto; e ne chiede scusa agli amici. «Prego il Cielo che questo scrivere arabico non t’acciechi... Dio non ti faccia perdere gli occhi nel leggere queste tre pagine... Faccia il Cielo ch’ella non perda la pazienza per indovinare le cifre di questo mio scrivere a geroglifici». Ma scrive, scrive. Corrispondere con gli amici è un modo di calmare la sua inquietudine, di contenere le sue passioni. Col Brunetti, in particolare: «l’unico amico», «l’unico e dolcissimo e necessario amico del povero Foscolo»; l’amico a cui scrive con accento quasi femmineo: «aspetto tue lettere con batticuore continuo». E gli fa le confidenze più delicate: «Senza denari, senza amici in Pavia»; e lo informa d’ogni suo malanno — palpitazioni di cuore, infiammazione degli occhi, febbri biliose — che gli curano amorosamente i più bravi clinici dell’Università, lo Scarpa, il Borda. A lui affida i saluti per Lucilla, la provvidente Lucilla: «Salutamela sempre e tutte le volte più cordialmente... Dille che la stanzina dove io dormo, l’ho battezzata la Lucilla, appunto come i capitani dei vascelli assegnano un nome favorito al loro legno, onde sia salvo dalle tempeste e dai corsari». Spera di poterla vedere a Milano, e gli sarà gioia vedersi «la minestra e il pane preparati da lei». Intanto, venga lei a Pavia, e ci venga presto, e si trattenga un po’ anche «per visitare il Museo e la Certosa».
È la sola volta che il Foscolo nomina monumenti pavesi. Sorprende ch’egli non abbia visto nulla di Pavia: le torri, il castello e il ponte coperto sul fiume e le molte basiliche dove pregarono poeti, s’incoronarono re. Nulla gli è rimasto negli occhi, come se l’autore delle Grazie non fosse affatto un visivo. Balena nella pagina rapida il Ticino corrente, o certi cesti d’uva che si vendono sul mercato; è nominata la bottega del libraio Comino, la locanda della Croce Bianca. Del resto, nulla. Pavia artistica gli è rimasta estranea. È il difetto comune ai neoclassici, che nulla hanno visto d’arte medievale, romanica. (Tipico esempio, Goethe in Assisi e la sua irritata cecità.) Se mai, si lamenta dell’aria poco propizia a’ suoi occhi malati; o della solitudine: «Pavia, questo focolare di Pallade, è per me un paese di tristezza e d’impazienza, e assai volte di letargia. Solitudine, solitudine senza pace». Dice: «Da che sono pavese...». Si tratta d’un puro riferimento di tempo, non d’anima. Pavese di sentimento, Foscolo non fu mai.
Neanche i pavesi lo interessavano. Li giudicava male: partigiani, timidi, novellisti. E voleva dire pettegoli. A Pavia il Foscolo non ebbe un amico, non una amica. Strano per uno come lui che, appena passava per Firenze o per Brescia, trovava subito modo di galanteggiare e impaniarsi in amori, magari più d’uno alla volta. C’è un accenno — uno solo — a una festa da ballo a cui partecipò col Montevecchio «in calze candide e tutto imbiondito da capo a fondo». Ma è un accenno svogliato, scortese. «Ier l’altro fui invitato a una festa di questi signori pavesi: ho dovuto andarci, e in parte ho voluto, per vedere queste galanti abitatrici. Galanti forse, ma né belle né eleganti; e il mio amore platonico non ha saputo dove gittare il fazzoletto. Mi sono dunque noiato». Strano; perché i cronisti del tempo, che abbiamo visto per scrupolo, dicon tutto il contrario: se per le vie di Pavia in quei giorni non passeggiavano Dee, vi splendevano però donne belle.
A Pavia, l’amore, dico la passione d’amore del Foscolo, non ha avuto sviluppi. È un episodio senza donne. Una volta ci capitò a trovarlo la Elena Bignami , la donna che aveva interessato anche Napoleone («la plus belle parmi tant de belles») e della sua persona lasciò vari ricordi nelle stanze di Casa Bonfico, se ancora dopo tre giorni dalla visita, il poeta andava petrarchescamente accarezzando sedie e letti toccati da lei. Ma fu un turbamento di pochi giorni, subito quetato da considerazioni di natura piuttosto pratica confidate al buon Montevecchio: «Io mi trovo al verde. Quel centinaio di lire che mi rimaneva, l’ho speso in questa ospitalità». Questo anzi è il tempo in cui lentamente si smorza anche l’amore per Marzia, la bresciana.
A Pavia, con una certa tranquillità ritrovata, nel Foscolo s’era sviluppata piuttosto la vocazione della casa, della famiglia, d’una sua famiglia. O, meglio, se n’era intensificata la nostalgia. Già aveva sospirato: «Beato chi possiede una bella e soave e giovine sposa». E aggiungeva: «Io, povero celibe, educo libri, invece di figli, che mi promettono al più qualche dozzina di battimani; e, fra mezzo secolo, queste belle vanaglorie taceranno dimenticate nel mio sepolcro». E guardando ora il ricco, agiato appartamento di casa Bonfico, esclamava: «Ho in casa assai letti e assai stanze; e posso dire come Cosimo de’ Medici, vedendomi anch’io senza moglie e figli: — Troppa casa e sì poca famiglia». Sospiri, nostalgie della donna-moglie. Omaggio all’interiorità dell’amore.




II

«A Pavia, ov’è l’università più
civile di tutte».




Pavia, Casa Bonfico (“La casa del Foscolo”)

Fotografia di Luisa Bianchi

Da Luisa Bianchi-Cesare Angelini, Colloqui fotografici, Pavia,
Edizioni ViGiEffe, 1993


Ma il motivo più vero che tappò il Foscolo nella bella casa Bonfico (per abbellirla ci aveva speso un capitale: più di seimila lire in mobili stile Impero) fu lo strenuo impegno di preparare la prolusione, le lezioni. C’erano invidie da vincere, vanità letterarie, nemici politici. Vincerla, stravincerla, questa canaglia di inetti e corrotti e mezzidotti. E sentiva d’averne le forze.
Fissò le lezioni nella seconda metà di gennaio, per andarvi più preparato e non interromperle nelle feste di Natale e di Epifania; le fissò esattamente tutti i giorni e le domeniche dalle dodici alla una, giorni di vacanza nelle altre cattedre, «onde — scriveva — tutti possono venire ad ascoltarmi»; e, sotto a lavorare alla prolusione. L’annunciava agli amici, alle amiche, con sfottente baldanza. «Alla metà di gennaio reciterò coram sapientibus et insipientibus la mia prolusione». La sentiva come una gran cosa, una memorabile data della sua vita.
Intanto accadeva un fatto strano, amaro, da tenere d’occhio, perché c’è degli imbrogli. Un decreto vicereale, in data 15 novembre, sopprimeva parecchie cattedre; anche la sua. Costernato, percosso, Foscolo ne scrive subito al Monti perché lo aiuti in questa angaria; e si loda di qualche bella abilità. «Io ho esercitata non senza lode l’eloquenza dinanzi ai tribunali, e v’è a presumere che saprei dettarne i precetti... Calca, o Monti, ricalca questa verità». Il Monti è certo un amico potente, al punto che se un principe lo incontra per strada, lo invita sulla sua carrozza. Ma nemmen lui può dargli molte speranze. Lo assicura che, trasferendosi la cattedra a Milano, come pare, farà di tutto per conservarla a lui. Foscolo torna a raccomandarsi: «Monti mio, ti scongiuro di mover cielo e terra perché la cattedra d’eloquenza sia conservata a Pavia, ov’è l’università più civile di tutte. Studierò più in un anno a Pavia che in quattro a Milano; qui risparmierò denari, e a Milano vivrò sempre tra la mediocrità e la povertà. Per Dio! fa che io possa restare a Pavia». Si preoccupava anche del lato economico della questione: uno come lui abituato a mangiare il frumento in erba, e parecchi debiti in giro, e la madre a suo carico («Quella povera vecchia...»).
Però il decreto diceva che per l’anno in corso (1808-1809) i professori, se credevano, potevan fare lezione e ritirare stipendio. Era già qualche cosa. Ne scrive al Brunetti: «Tu puoi immaginarti che io farò le lezioni, e con più impegno; e massime la prolusione. Prima d’abolirmi, ci penseranno». Anche il Monti gli loda il buon proposito: «Lodo senza fine la tua risoluzione di restarti in Pavia, e studiare, e fare grandi ali per volare tant’alto che l’occhio dell’invidia non ti raggiunga. Il rumore che menerà la tua penna renderà accorto il governo e lo forzerà a prendersi cura di te. Macte animo, dunque, e suda, e vinci tutto e te stesso».
Premuto dal puntiglio, e quasi da un piangere d’ira, Foscolo trova una volontà di disciplina insospettata nel capitano irrequieto. «Di giorno non ricevo nessuno, perché voglio attendere con tutte le forze dell’ingegno, del corpo e del cuore alle lezioni; se mi cacceranno da un posto datomi senz’averlo chiesto, voglio almeno fare che tutta Pavia gridi vendetta e che il mio grido si sparga per tutte le città che hanno mandato scolari». Quel posto non chiesto è un’innocente distrazione della memoria; ma la prolusione lo tiene davvero in viva tensione, in ansietà allucinata. «Passeggio pochissimo, perché la prolusione mi occupa corpo e anima, e per più ore mi tiene con gli occhi spalancati». La vita mite della città di provincia lo aiuta. L’ha desiderata, per dedicarsi tutto agli studi; ora la gusta, e gli rende. «La mia ventura è d’essere a Pavia..., in questa pace». Pace custodita in orti chiari, riempiti di cielo. Ma questa ditata è nostra. Su Pavia, Foscolo non s’abbandonò mai a una riga di colore. Odiosissima avarizia!
A ogni modo, le lettere che scrive, e sigilla ora con la bellissima testa di un Genio ora con un mazzo di fulmini (d’Annunzio è battuto in anticipo), ci permettono di vedere il suo lavoro crescere lento e scuro. «Brunetti mio, la prolusione cresce; e i pensieri concepiti e allattati nel mio cervello da tanti mesi, sorgono maschi, pieni, ordinati. Lo stile mi fa sudare, perch’io devo evitare la brevità, la rapidità e la fierezza tutta propria ai miei scritti, ma pochissimo confacente alla cattedra. Da pittore di quadri, devo farmi pittore di scenari e di prospettive, per appagare la moltitudine che viene a vedere da lontano ma che né sa né può giudicare da vicino». Scrittore non facile, ma onesto, Foscolo mira a «diradare nella scrittura le tenebre degli enigmi» e talvolta gli capitò di ringraziare un amico (per esempio, l’Abate Bottelli) che l’aveva rimproverato d’essere «tenebroso per troppa libidine di brevità e di profondità». Ha anche l’umiltà di domandar pareri, di sentire impressioni su quello che fa. Ha letto qualche cartella al Montevecchio col quale vive in contubernium; a un greco che gli frequenta la casa, e ha un gusto simile a quei nasi che si risentono alla fragranza delle mammole. Ha visto che «l’armonia» li diletta, «il raziocinio» li persuade, «i sentimenti» li commovono. Così continuerà, e indefessamente, finché non la veda compiuta, ripulita e pronta a esser mostrata senza timore a amici e nemici. Ma senza dubbio il 15 gennaio o alcuni giorni prima sarà recitata. Copia, corregge, ricopia con frequente dolersi della carta e dell’inchiostro: le cartelle si moltiplicano nella scritturina fina, fitta, un po’ geroglifica, e sanno di lucerna e caminetto; e anche di tabacco, ch’egli chiede agli amici, al Brunetti, al Monti: «Fate la carità al mio naso». L’aroma del rapé, cadendogli in parte sui baffetti rossici, gli rischiara la pagina, l’aiuta a lavorare. Fiutar tabacco a trent’anni, pare, per un poeta, cosa poco elegante. Ma Napoleone annusava a diciotto. Del resto, mette un tratto confidente intorno alla sua persona portentosa. Una debolezza, a scoprircela, rende più amabile anche un santo.
Tutte le difficoltà sono vinte da quella sua volontà puntigliosa, da quel suo splendore di febbre; nascan dalle sue miserie d’uomo di carne e d’ossa (frequenti flessioni, dolori viscerali, infiammazione d’occhi, mal di denti), o derivino dalla stessa natura, arcana e alta, del lavoro intrapreso. Lo confida al Brunetti, al quale dice tutto. «Questa prolusione è così vasta per l’argomento, e sì difficile per lo stile che vuol far facili e corporee le astrazioni recondite della letteratura, e sì incalzante per il tempo, dacché il 15 gennaio mi va sempre più minacciando alle spalle, e sì puntigliosa, attese le circostanze in cui la pubblico, ch’io, tranne il tempo occupato nel piacere di scriverti, non trovo ora né da mangiare né da dormire con quiete. Di visitare e di passeggiare non parlo, perché io non solo non fo, ma non ricevo visita da persona, e fo candidamente dire che sono occupato». Ancora, e ancora al Brunetti, il 21 dicembre con un testo famoso. «Sto dietro alla prolusione, e sono a buon punto. Non ch’io abbia finito; mi manca più della metà; ma ho passato i luoghi degli scogli, perché le parti metafisiche sono bell’e finite, e ora mi resta l’applicazione dei principî, cosa più maneggevole e da trattarsi con franchezza, senza timore di riuscire inintelligibile». Ma venga a Pavia, e l’amico glie la leggerà anche a lui. Non tutta; però dalla facciata e dai fondamenti potrà argomentare se l’edificio riuscirà solido e bello. Uomo di fantasia pronta e «pittrice», Foscolo sente il suo lavoro sotto immagini vive e varie; e si vede navigante che veleggia un mare pieno di scogli, o architetto che assiste al sorgere della sua costruzione. Intanto le pagine crescono docili, libere, ottime, senza pigrizie, senza sgocciolature, senza dorerie, fuor che le pagliuzze d’oro della sabbia del Ticino con cui le asciuga, umide. Soppesandole con la mano sottile, sente con esattezza la forza compatta del suo lavoro, raccolto in un disegno che non smaglia; ne palpa i particolari dove più torna il risucchio delle grandi letture fatte «per emenda della sua vita», o dove esalta la virtù della parola «tesoro di suoni, di colori, di combinazioni...» preparando «la parola» che palpiterà nello stellatissimo linguaggio delle Grazie, poesia senza residui, e anticipando l’intuizione d’annunziana che «tutta la bellezza recondita del mondo converge nell’arte della parola».
Quattro gennaio, cinque, sei... Cielo di Re Magi. Il tempo corre, vola. Ma anche la prolusione cammina con un senso di inebriante novità, di fantasia in festa. «La prolusione festinat. Ieri lavorai dalle otto (del mattino) alle undici della sera, divorando il pranzo... Bisogna pure che finisca, e starò scrivendo, fantasticando e cancellando fino a mezzanotte».
Il freddo notturno gl’indoliva spesso la ferita della gamba destra, riportata combattendo a Cento, o l’altra della spalla buscatasi all’assedio di Genova. Ma questo lavorare di notte oramai è un bisogno. La sofferenza aumenta la volontà, acuisce l’intelligenza; e il lavoro intorno alla prolusione quasi ogni sera si chiude con un impegno minore e più intimo: la lettura a un amico, con l’augurio che si ripete non so se più ilare o amaro, e ce lo mostra mentre salta in letto: «Buona notte, buona notte a te; a me rosei sogni nel freddo letto del celibato».
Ma, fuori di questi umani sospiri, è bello pensare che in quelle medesime notti in cui il Foscolo protraeva la sua vigilia fino alle ore piccole, quando per lo spegnersi del caminetto la stanza congelava, a pochi passi, nella vicina Contrada dell’acqua, Alessandro Volta preparava la sua lezione sulle esperienze elettriche. Per un singolare privilegio, la piccola Pavia ospitava in quei giorni i due più grandi uomini che in quel primo decennio dell’Ottocento onoravano le lettere e le scienze in Italia e nel mondo.
In città e fuori era grande l’attesa del 15 gennaio. Foscolo lo sa. «S’aspettan molte cose da me, e non vorrei che la montagna partorisse il topo o una rana gracidante». Scherza. Foscolo è persuaso che sta preparando, che ormai ha preparata una gran cosa, quasi un messaggio al mondo letterario. È contento del disegno, della sua solidità. Anche le idee, la massa delle idee, le ha amate e gli son risonate, prima, nell’interno dell’anima. Le ha ben connesse per trapassi veloci e controllati, in modo da evitare la noia geometrica, la costruzione labirintica e, massime, la inesattezza declamatoria. Si lamenta col Monti di non possedere la magìa delle tinte; si vanta però del rilievo dei muscoli. In vero la scrittura è nervosa, magnanima; si scioglie frusciando con baleni d’oro imbronciato.
D’intesa col Reggente Magnifico, che lo vuole Comandante del «Battaglione scolaresco», la prolusione è differita al 22; domenica, a mezzogiorno. Ne dà notizia al Brunetti, e par solfeggi un’antifona: «Domenica 22 gennaio, a mezzogiorno, si pronunzierà la prolusione. Ciò ti serva di regola certissima. È già deciso e non si preterirà. Tu fa d’essere qui sabato sera». Ne dà notizia al Monti, che gli ha promesso d’intervenire alla cerimonia: «Bada che qui ti ho preparato un letticciolo e la cena. Fa ch’io non sia deluso: abito in Borgo Oleario, casa Bonfico. Quant’io sudi per questa orazione, ti apparirà quando l’udrai; e tu loderai, se non altro, la somma ostinazione alla fatica e l’amore dell’arte». Gli dice anche il titolo, che ormai è definitivo: Dell’origine e dell’ufficio della letteratura. Foscolo è soddisfatto delle illuminazioni di Poeta e dei talenti di scrittore, insomma, dei tesori di sapienza e esperienza che vi ha profusi. Non fa mai cenno dei libri avuti sottomano. Però uno l’ha avuto per tutta la stesura: il Vico, e se n’è genialmente giovato. E là dov’è più folto il ricordo della lettura, si pensa a dove due fiumi mescolano le loro acque, e il corso è più potente.
Oltre il puntiglio, nobilissimo, che gli comandava di lavorare con intensità allucinante («Darò per un anno prove di ciò ch’io sia capace di fare»), oltre alla sete di gloria che in lui era interminata, c’era qualcosa di più disinteressato; l’amore alla gioventù. Sentiva che la bella lezione non era soltanto un’affermazione della propria maestria, una comunicazione dei propri lumi; ma soprattutto un dovere compiuto in vantaggio dei giovani. Rinasceva in lui, greco, la passione dei Greci: piacere ai giovani. E per lui, nato sotto il segno della bellezza, nessun cómpito era più genialmente grato che quello di svilupparne nei giovani il sentimento e la vocazione.
E poi c’era l’amore all’Italia, sua passione e sua febbre. «Le lettere e l’Italia» sono il binomio ricorrente nelle pagine come un religioso sigillo; scriva a un amico («noi siamo cari l’uno all’altro perché viviamo per le lettere e per l’Italia») o chiuda la sua lucente Orazione («Tolga il cielo che quanto io scrivo possa riuscire mai di danno alle lettere e all’Italia»). Ed è questo costante amore all’Italia che della sua Orazione fa, prima d’ogni altra cosa, la proba testimonianza di un uomo giusto; non uso, in tempi molli, a vender l’anima.
La prolusione è finita. Qualcuno gliela sta ricopiando. Vorrebbe averne una copia nitida; pur troppo la deve insudiciare per correggere gli errori del copista che s’è rovinato gli occhi a decifrare quella sua scrittura fina, fitta e un po’ geroglifica. A ogni modo è pronta.
Ma non è pronto lui, il professore. Gli manca l’abito nero. Ora Foscolo non ha un esterno molto formoso; ma alla eleganza del vestito, ci tiene. Non appena le carte, anche il vestito dev’essere in regola. In fretta, ne dà comunicazione al Brunetti: «L’abito m’è necessario per Domenica 22. Ti ringrazio d’ogni cura per l’abito». Il Brunetti se ne occupa con amore, come d’ogni cosa del Foscolo. Anche la Lucilla deve averci messa una mano. In poco tempo è fatto e spedito per corriere. E il Foscolo a ringraziare: «Brunetti mio, oggi dal Migliavacca mi è stato recato l’abito dottorale, e par che vada bene, quantunque il vecchio Domenico ne ridesse; e io, guardandomi allo specchio, gridai: — O Barga, o Mercuriale, anime chiare!».
Il Foscolo allo specchio: è una vignetta che non si dimentica più.




III

«O Italiani, io vi esorto alle storie».




Ugo Foscolo

Dipinto di François-Xavier-Pascal Fabre, 1813
Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze


Invitando il Monti alla prolusione, il Foscolo aggiungeva: «Prego il Sole che rallegri e intiepidisca quel dì la stagione su la strada da Milano a Pavia». Una lettera al Sole, con accento fresco come voce fra un bosco.
Noi non siamo in grado di garantire se proprio il mattino del 22 gennaio il Sole esaudì puntuale la preghiera del Poeta. Può darsi. In Lombardia, il declinante gennaio ha delle improvvise schiarite di cieli limpidi e d’aria serena da far nascere, in proposito, proverbi già olezzanti di primavera. Sappiamo di certo che su la strada gelata di neve e galoppata da interminabili pioppi, quel mattino un’allegra carovana partita da Milano s’indirizzava verso Pavia per udire la prolusione, come a una solennità. Sul calesse c’erano il Brunetti, il Bignami, il Marliani e, più intabarrato di tutti, c’era lui, il Monti, che anche in timonella non dimenticava un momento d’essere lo storiografo di Sua Maestà. Conversando, pareva che ondeggiasse.
L’inconveniente capitato a Binasco, d’un cavallo che perse un ferro, fu subito rimediato, grazie all’ingegnosità sbrigativa del postiglione. Fu l’occasione, se mai, d’una fermatina all’osteria di quel «paese scomunicato» (l’espressione è già nell’Ortis e è detta di Padova: Questo scomunicato paese...) per le frequenti aggressioni anche in ore chiarissime; e il loro arrivo a Pavia in nessun modo fu ritardato. Altre carovane eran giunte da Brescia, da Como, da Cremona ad applaudire al suo genio. La città vibrava nell’attesa. Erano mesi che s’aspettava questa prolusione; e gli studenti («l’elettrica gioventù di Pavia») bramavano di vederlo in cattedra, il professore-poeta. Tutti conoscevano l’Ortis e ci avevano pianto; molti sapevano a memoria squarci dei Sepolcri. Anche i cittadini che lo vedevan passare per le strade battendo i tacchi, eran curiosi di sentirlo quest’uomo che aveva fama di stravagante e spiritato: greco di nascita, capitano avventuroso, e poeta; una creatura diversa, una presenza misteriosa in città. Se ne parlava, benché con qualche riserbo, nei salotti delle varie marchese Robolini, Bellisomi, Del-Maino, Dal-Pozzo, Beccaria; con riserbo lievemente stizzoso, non avendo mai avuto il bene d’avercelo ospite e elegante conversatore.
La prolusione non era appena una festa dell’università ma un avvenimento cittadino.
Alle dodici in punto il professor Foscolo comparve nell’aula, nella grande aula del piano superiore che poi si chiamerà sempre «foscoliana»; gremitissima fino alla porta di cittadini e studenti intrappolati ai vani delle otto finestre. Era quel che si dice un bel colpo d’occhio. E non c’è proprio nulla di esagerato nelle parole del Carducci quando, più tardi, parlò di «giovani i quali si erano accalcati anelanti d’entusiasmo alla prolusione di Ugo Foscolo». Istintivamente i giovani cercavano un poeta nuovo, una voce giovane. Alfieri e Parini, i maestri, erano morti. Monti era contento della sua fastosa carriera, del suo facile estro. Non erano ancor nati gl’inni; non ancora i canti. La nostra poesia era dunque ancora così povera? Ma c’era lui, Foscolo, col dolente profumo dell’Ortis, dov’eran già tutti i germi del nostro romanticismo e i segni della nostra prosa nuova, con la perfezione delle due Odi, la passione dei sonetti e i Sepolcri; e preparava le Grazie... Severo nell’abito dottorale, il fascio di carte sottobraccio, Foscolo salì la cattedra, con passo esatto. Il nero dell’abito dava anche più spicco al rosso dei capelli e degli occhi infiammati, e alle rughe precoci che aravano il volto non lieto.
Il corpo accademico c’era al completo: il Reggente Magnifico, prof. Gratognini, il Bellisomi, il Lotteri, il Nocca, il Giardini, il Borda, lo Scarpa, il Marabelli, il Mangili, il Configliacchi, e il Volta; cime di scienza e spesso lumi di nobiltà. C’erano gli «Affidati», gli «Acccurati», i «Solinghi», i «Desiosi», ultime propaggini d’Accademie che ancora un secolo prima in Pavia avavevan disimpegnato servigi culturali, cospicui; e ora continuavano a far ricca di inezie la patria poesia. C’erano i Notabili e i Magistrati, con le signore nelle lor vesti altocinte, accomodate «all’antica» come voleva la moda neoclassica: acconciature da Muse e pose da parer citazioni classiche viventi: Ebi o Flore o Ninfe. Così doveva vederle il Monti che s’era messo in posto distinto e, con la sua aria conquistante, ora girava gli occhi mobilissimi, ora con la mano inanellata d’una corniola che faceva lume, disegnava gesti che parevano endecasillabi. Si sentiva un po’ al centro della festa. Certo la sua presenza allargava il credito dell’oratore e stabiliva un’illustre parentela. Il Monti in quei giorni era considerato come la capitale della poesia italiana; e Foscolo era lì, anche perché lui ci aveva messo una mano. In giro, per la città piccola, si sapeva anche questo.
Accucciato tra gli uditori c’era qualcuno , qualche commendatore, che lo aspettava al varco; curioso di vedere come si sarebbe comportato nei riguardi di Napoleone ottimo massimo. Perché è vero che nel ’96 aveva scritto l’Oda a Bonaparte liberatore, ma poi nell’Ortis aveva denunciato il traditore, il venditore di Venezia («Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto»). Né Foscolo, preso partito, era uomo che piegasse, che patteggiasse. E il saluto mancò. Il Monti l’aveva tanto pregato d’aggiungerlo! Non ci riuscì. Era però riuscito a fargli togliere un brano che l’avrebbe compromesso in modo irrimediabile.
C’erano anche i suoi nemici letterati: autori di proserelle trotterellanti che non capivano l’Ortis; pisciatori di odicelle rolliane a cui naturalmente parevan difficili i Sepolcri; e i soliti increduli della nuova bellezza poetica, che rinnegavano le due Odi per l’amica caduta e per la risanata; odi che agli spiriti fini paion sempre messaggi di bellezza suprema, giunti all’aurora da Dulichio e da Chio sulla stessa nave delle muse. Del resto, il poco conto in cui Foscolo teneva il suo giudizio letterario di Pavia, l’aveva allusivamente anticipato nella Notizia di Didimo Chierico dove, accennando al vario modo come «il manoscritto» era stato giudicato dalle diverse città, si lascio scappare che «finalmente in Pavia nessuno si degnò di badare allo stile». (E noi, nella nostra qualità di posteri, ci sentiamo un po’ mortificati).
Nell’udienza attentissima, tesa, c’era perfino chi voleva scoprire il professore «improvvisato», «l’irregolare», «il venturiero». Ora è vero che alla cattedra Foscolo c’era arrivato primo e senza concorso; ma era tutt’altro che un avventuriero della cattedra. Bastava ricordare i tesori di vivente dottrina, critica e estetica, versati nei Discorsi intorno alla Chioma di Berenice, tradotta e pubblicata nel 1803; così fini, così fitti da far dire al Cesarotti, gran soppesatore di titoli, «Foscolo mira a qualche cattedra».
I lor dubbi, del resto, caddero durante la prolusione; ch’egli recitò con voce abbagliante, svampante, con gesto scattante. L’averla appoggiata a un testo di Socrate («O non hai teco pensato mai che quante cose sappiamo per legge essere ottime, e delle quali abbiamo norme alla vita, tutte le abbiamo imparate con l’aiuto della parola?») l’averla appoggiata a un felice testo di Socrate, era già un mostrare ch’egli beveva direttamente ai fonti.
I sedici paragrafi in cui l’aveva pausata (e esattamente sedici erano i paragrafi della Notizia di Didimo) si seguivano con frusciante splendore. La potente brevità della concezione non mortificava la finezza carezzata dei particolari; il rigore logico delle parti metafisiche non offendeva il pudore della fantasia pittrice; la strenua esperienza del letterato che considerava le lettere come una umana religione s’avvivava nella santa carità del cittadino, nella malinconia dell’uomo, conscio d’esser mortale; la dolente saggezza non premeva sulle modulazioni segrete della scrittura evocatrice; il sentimento del passato si univa a una trepida prescienza dell’avvenire. In quel momento, con quelle pagine, Foscolo attuava la sua stessa definizione della poesia: una divina concitazione del Genio e certa sapienza ispirata. Anche qui s’incontrava con Socrate.
L’argomento era «l’origine» e «l’ufficio» della letteratura; e il Foscolo col gusto delle cose remote, che fa sempre più visionaria l’immaginazione, scopriva la parola ignuda nei suoi puri lavacri; ne esaltava il valore storico, psicologico, evocativo, civile; ne celebrava le possibilità, la responsabilità, direi il sacerdozio; ne esaltava la funzione di interpretare gli avvenimenti scritti nelle costellazioni, di affidare al cielo eterno i sospiri e i riti, di serbare l’incanto delle illusioni che velano i mali della vita, di abbellire e riscaldare le passioni nel cuore dell’uomo. Le «passioni»; le «matte passioni» di questa vita che fugge; le «utili passioni»; «le passioni che spirano calore continuo nei petti»; «le passioni che fanno più esatti e meno inetti e più doviziosi i nostri vocabolari»; «l’uso e il sentimento delle passioni». La parola, vissutamente foscoliana, tornò quaranta due volte, e parve che tutta l’Orazione fosse intessuta di essa, ruggente di essa e del suo interno fuoco e moto e tumulto. E forse per questa sua insistita presenza, agli «ingenui giovani» a cui Foscolo parlava, dovette parere tutta una velata e allusiva trasposizione autobiografica che dava fonde penombre a quel ricco tesoro di dottrina, a quella virtù animatrice. E, con essa, altre parole tornavano con tono perentorio come dati di vita, concetti vissuti, grumi di sangue: «fortuna» «esperienza» «fantasia» «bellezza» «verità» «libertà» «povertà» «pudore» «gloria» «storia» «poesia» «armonia» «sventura» «lettere» «patria», riassumendosi in una che tutte le sigillava e ingrandiva: Italia. L’Italia per la quale viveva, per la quale moriva ogni giorno un po’. Diceva: «Tolga il cielo che quanto io scrivo possa riuscire mai d’alcun danno alle lettere e all’Italia». Diceva ancora: «Scrivo, ma la penna è tra le mie mani uno strumento che non apprezzo se non quanto giova a destare negli altri l’amore per l’Italia che io sento in me». Scoperto il segreto della grandezza a cui può esser portata la penna, non ci meravigliamo più della grandezza a cui la penna può portare.
Nell’Orazione, che passò d’un buon pezzo i sessanta minuti, ci furono anche i momenti di più fitto impeto, di più pariniana severità. E fu quando invitò i cittadini a visitare le tombe, a prostrarsi sulle tombe degli scopritori del vero e del bello scientifico e letterario: Dante, Machiavelli, Torquato, Galileo, che anch’essi piansero e sudarono nel loro viaggio terreno, anch’essi soffersero l’esilio, la vita raminga, l’ingratitudine, la domestica povertà. «Interrogateli come furono grandi e infelici, e come l’amore della patria, della gloria e del vero accrebbe la costanza del loro cuore, la forza del loro ingegno e i loro benefici verso di noi». O quando, invitandoli ad amare le lettere e la Nazione, aggiungeva: «Potrete alfine conoscervi fra voi e assumerete il coraggio della concordia». Il coraggio della concordia; la frase singolare, ripresa nella sua sostanza dalle Lettere a Iacopo («O Italia, nulla ti manca se non la forza della concordia») è di quelle che, suscitate anche dopo un secolo, tracciano programmi a una Nazione decisa a salire il più fermo splendore.
Ma un lungo fremito corse per tutta l’udienza quando il poeta giunse alla vampante apostrofe che per molti (i frettolosi) è tutta la prolusione, anzi è tutto il Foscolo pavese. «O Italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi faccia rispettare, né più grandi anime degne d’essere liberate dall’oblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere e onorare la terra che fu nudrice ai nostri padri e a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri...». Non dico degli applausi rovesciati su queste parole; ma così vivo era il fuoco che vi spirava dentro e così veri gli accenti della incorruttibile bellezza, che a più d’uno cadevan le lagrime. Egli stesso, il poeta, pareva avvolto da un Nume; e la sua grinta tra di cane e di scimmia si trasfigurava nel volto di un mitologico iddio.
Nel pubblico c’erano alcuni spiriti particolarmente fini, esigenti, che, pur plaudendo ai tratti dell’accesa eloquenza, portarono la loro attenzione ed ebbero un compenso più pieno in meno vistose svoltate, meno avvertite dai più. Ed erano, per così dire, le modulazioni e i sospiri segreti del cuore del poeta; si confessasse umilmente «più devoto che avventurato cultore delle lettere, dalle quali la fortuna e la giovanile imprudenza l’avevano distolto» o dichiarasse che il cielo «ha dotato la vita di questo bene — la poesia — per consolarla della sua brevità». O erano frasi dove tremava una pena, una segreta pena: «Il cuore domanda sempre...». Quante cose domanda il cuore nell’Orazione del Foscolo! Domanda «che i suoi piaceri siano accresciuti; che i suoi dolori siano compianti»; domanda di «agitarsi e di agitare, perché ogni nostra tranquillità non è che un preludio del supremo e perpetuo silenzio». O, con parole più rise e di più fuggitivo suono, parla dei «riti» che scesero dal «limpido cielo»; della filosofia che «esplora tacita il vero»; della poesia «che lo riscalda con gli affetti modulati della parola, lo idoleggia coi fantasmi coloriti della parola, lo insinua con la musica della parola». Qualcuno agevolmente riscontrò immagini e ritmi che tornavan dai Sepolcri, dai sonetti noti; e, calati nel discorso con la loro musica nativa, facevan dell’Orazione una canzone.
Da cronisti fedeli, dobbiamo registrare, a lettura finita, altri fitti e strenui applausi, col voto di tutti che l’Orazione fosse data alla stampa. Il Monti, che secondo una sua facile commozione aveva gli occhi molli, un po’ teatralmente lo baciò. Volta gli strinse la mano. Le signore lo inchinarono; ed egli inchinò le signore.
Poi, le varie centinaia di studenti s’incolonnarono e, in corteo, lo accompagnarono a casa. In fianco al Foscolo, il Monti gongolava. L’aria di Pavia e il trionfo dell’amico lo facevano tornare indietro di dieci anni. E quando gli studenti rinnovavano le acclamazioni, il Monti si tirava in disparte, perché l’onore fosse tutto per lui. Lasciata Strada Nuova, il corteo passò davanti alla locanda della Croce bianca, al palazzo ricamato dei Mezzabarba; toccò la Contrada dell’acqua, dove abitava il Volta; rasentò l’Orto botanico che mostrava con orgoglio la prima magnolia portata in Italia cinquant’anni addietro; poi sboccò in Borgo Oleario, davanti a casa Bonfico, dove più fragorose si ripeterono le acclamazioni degli studenti, quasi a dirgli che tra loro s’era già creata un’intesa, un impegno. E il corteo si sciolse.
Il Foscolo, che amava l’ilarità dei conviti ospitali e «il giòlito dei bicchieri», quella sera trattenne a cena i più intimi. C’era, naturalmente, il Brunetti, il caro Brunetti sempre pieno di affettuose sorprese; e il Monti, più rumoroso che mai.
La cena, nella quale si fece la festa a due tacchini offerti al poeta dalla contessa di Belgioioso «trinciati secondo il rito degli avi» e si bevve nel bicchiere dal motto augurale «Felicitati» che il Brunetti aveva portato da Milano per l’occasione, si protrasse fin dopo mezzanotte, tra uno sfarfallìo di neve, che ne rende più fantastico ora il ricordo.
Il Foscolo e il Monti, a cena insieme, nella casetta di Borgo Oleario... Come a dire un soffermarsi della poesia in una viuzza che contava dodici «focolari». Chi sa, non può mai passare vicino a questa casa senza essere preso da un timor riverenziale, sacro. Quasi un appressarsi al tempio delle Grazie, e n’oda il ventilare delle angeliche vesti.


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Università di Pavia, aula foscoliana

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Frontespizio della Prolusione di Ugo Foscolo

Leggila (Google books)



IV

«...il dono celeste di poter
udire e dire parole».




Lapide dedicata a Ugo Foscolo, posta all’Università di Pavia, Cortile delle Statue, 1864.

«AD / UGO FOSCOLO / INGEGNO PER ESUBERANZA IRREQUIETO / LETTERATO FILOLOGO POETA / CHIAMATO NEL MDCCCVIII ALLA CATTEDRA / D’ELOQUENZA ITALIANA E LATINA / IN QUESTA UNIVERSITÁ / VI TRATTÓ E CHIARÍ CON ISPIRATO DIRE / LE PIÚ RIPOSTE BELLEZZE / DE’ SOMMI MAESTRI DEL SUBLIME ELOQUIO / PER TENERISSIMO AMOR DI PATRIA / MORÍ ESULE E POVERO IN TERRA STRANIERA / IL MUNICIPIO PAVESE / AL GENIO SVENTURATO / P. Q. M.»


Agli occhi dei suoi, e ancora più dei posteri, la prolusione ebbe l’aria d’una «incoronazione»: il modo come fu preparata, il successo, l’impressione che destò e dura.
La cattedra fu il suo Campidoglio. Rade volte un professore ha creato così entusiastica attesa, ha conseguito risultati così perentorii. Non il Monti sette anni prima, non il Carducci settant’anni poi. E ho nominato gente che ha fatto rumore.
C’è poco da dire: l’interesse della persona del Foscolo era densissimo: la sua origine d’uomo venuto dal mare di Venere, gli studi rari, le testimonianze della cultura, le amicizie e le inimicizie, le passioni, l’impennato carattere, il coraggio di denunciatore dei potenti; l’autore di un libretto che aveva stregata la gioventù di quei giorni, il donatore parcissimo di versi tenuti da melodie segrete, il capitano due volte ferito, il domator di cavalli, i viaggi, le donne, e la parola che aveva l’eco degli spazii, d’Europa, d’Oceano. Trent’anni, ma un dato biografico solido, folto, da riempire una vita assai più lunga e da dare l’idea d’una presenza sacra. E poi, certi segni personali che non parrebbe, ma sul pubblico contano: rosso di pelo, pronto di mano, volto di fauno. Poi, la felicità di certi gridi che si trovano una volta sola e sono la fortuna di un discorso, per sempre: «O Italiani...», e segnano tutto un insegnamento.
Com’era naturale, la prolusione ebbe echi immediati: gli procurò complimenti, biglietti di lode; uno del Monti, prima di lasciare Pavia e la locanda. Comincia: «Il freddo e la neve...» e chiude: «Sempre più contento della mia venuta, e del tuo trionfo di cui sono stato spettatore». Anche lui, il Foscolo, se ne compiaceva («Mi compiaccio assai di questa mia prolusione»); s’illudeva anzi che potesse giovare a far abolire il Decreto 15 nov. ’08 («Io farò alcune lezioni, ma spero che la sola prolusione basterà a riconciliare il governo con la povera ed esule letteratura»).
Il Reggente Magnifico «informò» subito il Ministro dell’Interno, l’Eccellenza Conte Vaccari, con un rapporto, a dir poco, entusiastico: rilevava il valore dell’Orazione, l’alata novità, l’anelante splendore, la folla accorsa di professori e scolari e cittadini, il grido unamine che la voleva alle stampe, gli applausi sine fine dicentes. Il Ministro lesse la relazione, se ne compiacque; ma non lo fece nominare nemmen cavaliere. Ne fu «informato» anche il Moscati, Direttore Generale della Pubblica Istruzione. Anche il Moscati se ne compiacque; ma non seppe salvargli la cattedra d’Eloquenza a Milano, che proprio in quei giorni era affidata a un altro. La notizia, glie la diede il Monti, che aveva tanto brigato in suo favore. «Volevo tacerti una nuova che non deve piacere né a te né ai tuoi amici, ma è meglio che tu la sappia da me. La Cattedra d’Eloquenza forense, senza veruna colpa dell’Istruzione Pubblica, anzi contra il suo voto, è stata conferita all’Anelli». Strana questa preferenza data al trotterellante autore delle Cronache di Pindo, che faceva anche il librettista pur d’avere un posticino in letteratura, mentre per il Foscolo (uomo di ben diversa statura), s’era interessata la commissione di nomina e il Monti e lo stesso Ministro dell’Interno. Viene un sospetto: che il Foscolo non sia stato dimesso dall’insegnamento in forza del famoso Decreto, come si ripete da un secolo, ma per ragioni speciali e personali.
A ogni modo il Foscolo ci patì come d’un grave torto. Trovò parole risentite, altere, e le scrisse al Monti. «S’io non dovessi pensare che al buon nome, dovrei godere di queste elezioni; si paragoneranno gli scritti, il carattere e la fama di loro e di me, e il paragone farà parer candide anche le mie macchie. Ti giuro bensì ch’io mi sento crepare il cuore, pensando a che mani, a che lingue, a che ingegni è commesso l’altare della letteratura e il cuore della gioventù; e spesso, scrivendo queste mie lezioni, prorompo in lagrime da me solo, e prometto con sacramento all’Italia di non tacere le turpitudini di coloro che ardiscono chiamarsi letterati italiani». La cattedra non fu mai sentita con più santità («l’altare della letteratura»); e quel crepacuore e quelle lagrime perché «il cuore della gioventù» è messo in cattive mani, rivelano ancora l’appassionata e sfortunata vocazione del Foscolo all’insegnamento. Il Monti, ch’era buon amico e aveva fare accomodante, lo calmava; e sapendo che la prolusione doveva esser presto stampata, lo consigliava di mirare all’avvenire che è, sì, nelle mani di Dio, ma talvolta anche in quelle degli uomini. Ricordasse che il suo massimo studio doveva essere il conservarsi la grazia del Principe. Aggiunse dunque due parole, un cenno, che apertamente toccasse le lodi dell’Imperatore e del Principe; costumanza dalla quale non poteva liberarsi senza dar campo a odiosi sospetti... E il Foscolo a rispondere, irritato, acerbo: «Dell’avvenire né spero né temo; onde, poiché avrò fatto ciò che dovrò come uomo libero, devoto alla patria, alle lettere e alle leggi, lascerò che la fortuna si studi di farmi ridere o piangere. Con questo consiglio ho scritto l’orazione, così l’ho pronunziata; così la stamperò, senza che le speranze e i timori o le previdenze mi facciano aggiungere o togliere sillaba... Questo sia detto oggi per sempre». Come uomo libero... Alcuni trovano un po’ sciupata tutta questa fierezza. Noi sentiamo di doverla riverire; parendoci di scoprire in essa una lezione di vita che val di più di molte belle pagine, e invigorisce lo stile della sua stessa biografia di scrittore. Era, alla fine, gelosia della sua libertà, del suo genio libero. E la prolusione fu stampata come fu pronunziata. Ebbe il destino delle pagine grandi e vive: lodata, discussa, offesa, difesa. Avrebbe voluto dedicarla al Brunetti, poi al Giovio. Se ne trattenne, cauto, per non associare l’altrui «quiete» ai suoi «pericoli»; e anche questa è una bella finezza. Al Giovio, dedicherà, più tardi, quando saran cessati i dubbi sopra di lui, la seconda Edizione; e gli manderà copia «in carta velina legata in azzurro».
Ora poi, sotto a far lezioni. «Comincierò giovedì, 2 febbraio, e da indi in poi sino alla fine dell’anno farò esattamente due lezioni a settimana; e solo cesserò quando né occhi miei ci vedranno per troppa vigilia, né il cuore mi dirà più di amare le lettere, l’onore e l’Italia». Ma lo strenuo proposito parve subito urtare contro malanni non lievi. Forse l’eccessivo ardore con cui aveva preparata e detta l’Orazione, forse il freddo insaccato alla famosa festa da ballo la notte del 24 gennaio, il Foscolo ammalò: febbri biliose, purghe, salassi, visite del Borda: quattro giorni in pericolo. In otto se la cavò. Esultava. «Da ieri l’altro vedo e sento il sole, e bevo l’aria liberamente». E poi: «Domani, 2 febbraio, bene o male, andrò a fare la mia prima lezione, alla quale lavoro non con tanta cura come alla prolusione, ma con pari sollecitudine. Domenica farò la seconda». Par di sentire la timida inesperienza nell’assumere per la prima volta la parte di professore. Un cartellino affisso dal bidello alle colonne le prometteva a cittadini e studenti. E il 3, lui stesso ne dà relazione. «Ieri diedi la prima lezione; e fu ascoltata dallo stesso concorso e con maggior profitto della prolusione. Lavoro alla seconda per doman l’altro: sono lunghe, perché bisogna che io scriva molto, affine di parlare senza ciarle accademiche per un’ora...». Anche alla seconda, molto pubblico, attenzione appassionata, commozione, applausi. L’argomento della prima era «Dei principi generali della letteratura» volti alla prosperità delle lettere e all’utilità della patria; la seconda trattava la lingua italiana storicamente e letterariamente. Il filologo, lo scrittore, il cittadino, l’uomo, si fondono nella sua voce, si integrano nella pagina spedita. Sono il frutto di molte esperienze cavate da se stesso, perpetuamente alimentate dalle passioni fra cui vive, dalla osservazione acuta del cuore, dallo studio della natura, e stese nel lume purissimo dei nostri antichi scrittori. Ma, sono, soprattutto, ragionamenti con se stesso, conti con se stesso; e il calore che in lui nasce dalla alleanza delle passioni e della mente, pare aumenti le idee, e getta splendore sull’anima. Di qui un senso di colmo, di operosa dottrina, da cui si può attingere sempre come da fonte. Idee larghe, prospettive profonde. «Niun letterato sarà utile e glorioso, se non conosce le istituzioni sociali, se non vede molti paesi e costumi, se non paragona e illumina i meriti, gli errori e i difetti dei proprii concittadini, se non legge nel cuore della filosofia morale e politica, se finalmente non attende all’indipendenza e all’onore della sua patria... I letterati da tavolino, senza esperienza di mondo, non possono riuscire utili letterati mai». Utile, utilità; le parole ricorrono con sapore pariniano anche nelle parti del maggior abbandono letterario: lodi «l’arcana armonia delle idee» che il pittore consegue col disegno e lo scrittore col raziocinio, o definisca lo stile come «la risultanza dell’armonia, del moto, del colorito, delle parole».
Cominciando la seconda lezione («Piacemi che questo giorno ultimo per noi di lezione finché siano trascorse le ferie, non passi inutile»), annunciava la vacanza di carnevale, che andò a passare a Milano. Doveva essere un mese, diventarono tre; perché, lasciata Pavia il 6 febbraio, vi ritornò alla fine d’aprile. Non che a Milano si trovasse bene. Anzi; solo, in una camera di locanda, si lamenta che non ha più «un’ora di salute», che a Milano «è triste soggiorno di solitudine». A Milano ci era trattenuto dal dovere di curare presso la Tipografia Regia l’edizione della prolusione, di cui manderà trecento copie «per gratitudine ai giovanetti che mi ascoltano con tanto amore in Pavia» . C’è, in quei «giovanetti», una tenerezza da epigramma greco. Va anche strologando della sua situazione pavese. Scrive al Moscati, sollecitando il rescritto per la cattedra. Scrive al vicerè: «Vostra Altezza nominandomi professore colmava i miei pieni voti». Il rescritto arriva, e dice che «al Principe non pare per molte ragioni di conservare la cattedra». Per molte ragioni, e intanto lui non ne sa nemmeno una. Gli torna più acuto il desiderio di Pavia, «della sua dolce e operosa solitudine». Si sfoga a scrivere. «Cerco di giovarmi del dono celeste di poter udire e dire parole scrivendo agli amici». Dono celeste. Son lettere piene di tesori; d’un suo innamoramento perpetuo per le vergini muse, d’un arcano linguaggio, d’una dolente armonia; d’un cuore che parla sempre e domanda e s’affligge; d’una segreta ansia, di un senso d’esilio; di quella cosa che diciamo solitudine, ed è, per un poeta, un vivere nel di là. «Passeggiavo dalla una alle quattro ai raggi del sole fuori di Porta Vercellina, e talvolta parlando col sole; e poc’anzi mi posi a guardare le stelle per lunga pezza, dai cristalli del mio balcone». I poeti si ritrovano a certi appuntamenti, col sole, con le stelle; con le creature eterne, libere.
Il 25 marzo è deciso: «Per martedì ho deliberato di cenare a Pavia col matematico Giulio». Ma un guaio di salute lo obbliga a fare una corsa verso aria più fina. «Vado a Como; vedrò la primavera sorridere sui colli di Pusiano e su gli alberi fioriti dei monti di Brianza». Ristabilito, torna a Milano, con l’intenzione di continuare fino a Pavia. «Ma — scrive al Montevecchio — non ho soldi. Onde tu vedi ch’io non so quando potrò averne da tornare a Pavia. E bisogna pure ch’io ne trovi». Gli ultimi zecchini, che teneva nella «cassettina» li ha dati al fratello minore, Giulio, che è partito soldato.
Solo verso il 24 d’aprile potè tornare a Pavia. Mal d’occhi, e più, l’incertezza del suo stato, lo affliggono a morte. Passeggia, non ha voglia di studiare, tanto meno di fare lezione. Piuttosto legge il Corano, o va a udire le lezioni elettriche del Volta, auditor tantum. Si lamenta «d’una oziosa e infermiccia malinconia». Vorrebbe far qualche lezione; ma il solo pensiero lo sconforta. Non sa nemmeno se manterrà il proposito di abitare a Pavia fino al termine delle scuole.
Col maggio par riprendere spiriti nuovi, tornano i proponimenti. Il 15 scrive al Brunetti: «Giovedì, venerdì, sabato e domenica darò quattro lezioni di seguito». Di quattro ne fa una, il 18, giovedì. Vorrebbe saltare anche quella; ma ormai s’è impegnato col pubblico, con gli studenti; perché «quell’ubriaco di bidello ha già affisso l’avviso alle colonne». Eppure, chi legge le lettere di questo periodo, pensa a chissà quante lezioni. «Seguo a dar lezioni. E mi affretto, perché prevedo che la cattedra dopo quest’anno, e prima forse, tacerà sempre in Pavia». Al Giovio: «Per seguire il consiglio di lei, vo facendo alcuna lezione; e quanto più mi vedo ascoltato, tanto più mi piange l’anima d’abbandonare questa calda e ingenua numerosissima gioventù; ma almeno non avrò rimorso d’abbandonarla senza lasicarle nel cuore alcuna grata ricordanza di me». Al Brunetti: «Ti ringrazio de’ tuoi consigli; li seguo; domani darò lezione e lavoro indefessamente per proseguire fino alla fine dell’anno». Ancora: «Io incalzo la penna alle lezioni... Per la lezione di giovedì tornerò a Pavia». In realtà, in tutto il maggio fece una lezione sola, quella del 18; e fu la terza dell’anno. L’argomento era Della letteratura rivolta unicamente al lucro, ricca di moralità letteraria. Il professore si presentava dopo quattro mesi d’assenza, scusandosi con gli studenti: «Se la fortuna non mi avesse distolto dai primi divisamenti...». Le scuse sono di una accorata e umile abilità. «Or a me non rimane che di vedervi ancor poche volte...». Due: il 5 e il 6 giugno; quando completò l’argomento, trattando Della letteratura rivolta unicamente alla gloria, e Della letteratura rivolta all’esercizio delle facoltà intellettuali e delle passioni.
L’ultima fece colpo, da richiamare la Prolusione. Infatti, se la prima lezione destò meraviglia, l’ultima destò commozione, e ne diede relazione quasi con le stesse parole al Giovio e al Brunetti, in data 7 giugno. «Ieri ho pronunciata l’ultima lezione; e tutto che non fosse rivolta che al nudo insegnamento, gli ascoltanti tutti a mezza recita cominciarono a mostrarsi commossi: la sala e le finestre erano affollate di volti che ascoltavano con mesta attenzione; e gli occhi miei, rivolgendosi nel discorso, incontravano molti occhi pieni di lagrime, forse perché tutti sapevano che m’udivan per l’ultima volta, e che non mi avrebbero più veduto... io mi sentivo vinto dalla commozione comunicatami dagli ascoltatori e ho dovuto a forza raccogliere tutti gli spiriti della voce e del cuore, per poter pronunziare le ultime pagine. E se il dì della prolusione fu più lieto, questo m’è stato certamente più dolce». Il maestro è lieto di poter conservare queste memorie come tesoro della nobiltà e dell’amore con cui ha coltivati gli studi, e li ha, in pochi mesi, rivolti all’utile della gioventù e della patria. È anche l’addio a Pavia; che rappresenta uno dei momenti più raccolti della sua vita, quello che gli ha dato belle soddisfazioni da ricordare.


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Qualcuno ha detto che l’insegnamento del Foscolo a Pavia fu più scarso di quello del Monti, perché il Monti insegnò tre anni (certo due) con lezioni regolari, e il Foscolo pochi mesi e pochissime lezioni: cinque in tutto. Paragone incauto! Non il numero delle lezioni conta, ma la lievitante presenza che getta inquietudini, sveglia interessi, suscita vocazioni, accende fuoco e fiamma; invia, avvia, crea. Tutte cose che seppe fare il Foscolo con la sua adulta coscienza d’artista, con la sua serietà d’uomo; e non vuol paragoni con l’altro. Piuttosto a Pavia s’eran sviluppate nel Foscolo le linee caratteristiche del maestro, dell’educatore, dell’amico dei giovani. Qui pensò, scrisse cose che non furono soltanto la gloria delle lezioni di quei giorni, ma sono una lezione per sempre. E, nonostante la «infermiccia malinconia», a Pavia molto lavorò. Tradusse il primo dell’Iliade («Guai quella del Monti, se Foscolo finisce la sua...»); avviò il carme delle Grazie («Non distolgo mai la mente dai Carmi»); curò il Montecuccoli («l’arte del mio Raimondo»); avviò un romanzo, che non ebbe seguito.
A Pavia visse, o anticipò, un aspetto del suo dramma, della sua vita piena di antinomie. Nato per educare dalla cattedra, ne fu allontanato. Nato per formarsi una famiglia, morì scapolo. Nato per amare l’Italia, morì in esilio.
Non per questo il Foscolo è uno sconfitto, un vinto.
La fortuna gioca sulle circostanze esterne, su gli elementi caduchi degli uomini; i quali hanno poi per sé il dono divino di possedere valori immortali. E quando la fortuna cessi dalle sue vendette, prevale lo spirito, e vince.
Così il Foscolo è rimasto e rimane maestro a ben più ampie scolaresche che non sian quelle, sparute, che s’adunano attorno a una cattedra; e se non ebbe focolare domestico e una donna e dei figli, raccoglie l’affetto d’una più larga famiglia di spiriti, che avvicinandolo attraversano il dono celeste delle sue parole, lo comprendono e appassionatamente lo amano.
l’esilio fu l’occasione perché il suo amore d’Italia fosse messo sul candelabro, e purificato attraverso il sacrificio, diventasse più comunicativo e sublime.

[Pavia, 1940]


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Pavia. Lapide dedicata a Ugo Foscolo, posta accanto all’ingresso di Casa Bonfico (“La casa del Foscolo”).

«UGO FOSCOLO / DATO AGLI ITALIANI IL LIBERALE CARME FATIDICO / QUI L’ANNO MDCCCIX POSANDO / DOPO I TUMULTI DELLA GIOVINEZZA / ALLA PATRIA NUOVE FORME DI ELOQUENZA E DI CRITICA / A SÈ NUOVA GLORIA E L’ESILIO APPRESTAVA / — / CENTO ANNI DOPO L’ATENEO E LA CITTADINANZA POSERO»

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  Vedi anche altri studi di C. Angelini su Ugo Foscolo